L'opinione è un diritto, o un dovere?

31/10/2022

Sia la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 che tutte le democrazie del mondo, si fondano su un principio cardine (oltre a quello dell’inviolabilità della vita) che è quello della libertà di opinione e di espressione. Ciò che mi affascina sempre più, nella storia dell’uomo, è la strana simmetria (è forse un termine azzardato, ma si capirà perché tendo ad usare proprio questo) fra visione scientifica del mondo e quella umanistica.
Apparentemente sono due modi completamente differenti di decodificare la natura, quasi contrapposti, ma nascondono in realtà molti punti di contatto. Proviamo ad analizzare il diritto di opinione dal punto di vista “umanistico”. Nella sua visione antropocentrica per il “solo” fatto di essere al mondo e di “avere un’anima”, ogni persona ha il diritto di esprimere sé stessa ed infatti è proprio il dialogo fra le singole unità che crea l’opinione comune, che a sua volta genera la morale e poi l’etica. La determinazione di ciò che noi diamo per scontato nello stabilire cosa sia buono o cattivo, giusto o sbagliato, bello o brutto, è proprio il risultato di un’interazione (a volte poco verbale!) di popoli (singoli, tribù, città, paesi) che misurandosi tra loro, con le proprie convinzioni (opinioni) hanno generato per diritto di prevalenza (che in democrazia si chiama maggioranza) prima il costume, poi il giudizio comune, ed in fine la morale. Se pensate a questo come ad un processo selettivo, non è altro che la teoria darwiniana traslata ai comportamenti umani. Ed ecco che proprio come stabilisce Darwin, la Natura crea una moltitudine di varianti (opinioni) affinché possa prevalere per selezione naturale quella più adatta all’ambiente in cui si trova. Quindi il diritto di pensiero e di espressione è tanto naturale quanto potentissimo, è ciò che stabilirà ogni criterio all’origine di ogni Costituzione e ogni singola legge. Questo breve preambolo mi serve per arrivare al nocciolo della questione.
In natura non vince l’insetto più bello se la bellezza non serve a tenerlo in vita, ma vince quello che si adatta all’ambiente. È evidente a tutti che la Natura ci ha regalato le farfalle ma anche l’insetto stecco e noi non dovremmo mai pensare di essere “farfalle” solo perché ci riteniamo i più belli, il nostro giudizio è il risultato della nostra storia, del mutamento del senso comune rispetto a ciò che riteniamo sia bello o giusto nel nostro habitat (epoca). Questo per arrivare alla riflessione conclusiva. L’era consumistica di cui siamo figli, che ha identificato nel denaro il generatore di tutti i valori, sta mostrando oggi tutti i propri limiti e siamo ai primi vagiti di un nuovo pensiero, ai modi ed al significato stesso della nostra esistenza. Ciò che conta non è tramandare il nostro senso del dovere o la nostra etica del lavoro, sta cambiando l’ambiente e dovranno cambiare anche i costumi e la morale, si adatteranno, con buona pace di tutti i nostalgici a cui non resterà che dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Quello di cui dovremmo preoccuparci è di consegnare tutti gli strumenti affinché la “selezione darwiniana” che darà origine (speriamo democraticamente) alla prossima morale, sia la migliore possibile. Questo dovrebbe essere il nostro lascito. Il nostro DNA utile. Ma non dovremmo fare l’errore di voler indirizzare il processo, neanche se spinti dalle migliori intenzioni, sarebbe molto più facile ma viziato dal nostro modo di percepire il mondo, con la nostra morale, e quindi sbagliato. Immaginiamo di voler arginare la prossima piena di un fiume, che ricordiamo negli anni aver fatto danni incalcolabili. Anche se facessimo costruire gli argini più alti e resistenti, non servirebbero a nulla nel momento in cui il fiume cambiasse improvvisamente il suo alveo.
Quello che possiamo fare è insegnare tutto ciò che abbiamo imparato nella costruzione degli argini e raccontare tutti i pericoli che possono arrivare dalle piene del fiume. In una parola: 𝗲𝗱𝘂𝗰𝗮𝗿𝗲 Ecco quello di cui dovremmo preoccuparci.
Invece lasceremo un mondo colmo di risposte al 𝙘𝙤𝙢𝙚 si fanno le dighe, ma neanche un misero post-it sul 𝙥𝙚𝙧𝙘𝙝𝙚́.

Cappuccetto Rosso dovrebbe essere gay.

11/08/2022

La natura non ha bisogno di distinguere le categorie, la natura le crea se servono, ma a nominarle ci pensiamo noi. A nessun ragno frega nulla di essere un aracnide, come ad un grillo poco importa di essere un insetto. La classificazione è pertanto una peculiarità dell'uomo (dovrei scrivere umanità per non essere sessista) e dovrebbe essere relegata solo alla propria sete di conoscenza. Ma quando si crea una categoria per combattere una discriminazione è una contraddizione in termini. É come dire che per essere contro l'omicidio bisogna prima uccidere qualcuno. Mi spiego meglio. Se ci si concentra sul valore del diritto dell'umanità, per quanto sia relativo a questo momento e alla nostra cultura di riferimento, non ha nessun senso fare le battaglie per alcuni particolari uomini o donne o "fluidi". Altrimenti ci sarà sempre qualcuno da dover difendere più degli altri, ed è proprio questo che crea la discriminazione. Ogni nuova categoria sottolinea nuove differenze. Perché non dovrei, ad esempio essere più sensibile con chi porta gli occhiali? È una disabilità che crea parecchi imbarazzi nella vita di tutti i giorni. Quindi noi “ipo-vedenti” dovremmo combattere per far stampare i libri con caratteri più grandi, per non parlare dei cartelli per strada e le etichette degli ingredienti nei supermercati. Chi ha deciso che siano “normali” quegli altri che ci vedono di più? Sono le lobbie degli editori e dei produttori di cartelli stradali che stanno discriminando noi poveri ipo-vedenti a favore di una cultura del superuomo dalla super-vista.
Assurdo vero? Non tanto. Sembra che la direzione sia questa per ogni minoranza (oddio! Ho scritto minoranza). Ma quello che è cambiato (ed è un bene, sia chiaro) e deve migliorare ancora, è la sensibilità verso le minoranze (lo ripeto). In pratica, senza voler fare crociate a tutti i costi, si tratta di accettare che ciò che è ritenuto NORMALE lo è semplicemente perché percentualmente più rilevante. Ecco spiegato perché io non riesco a leggere la quantità di colorante nella marmellata: proprio perché la maggioranza delle persone invece ci riesce. Quindi non essere normali, significa semplicemente essere in minoranza. Ma questa è una parola che non si può più usare, come se essere percentualmente meno rilevante debba essere di per sé discriminatorio.
Il punto cruciale è che a mio avviso per aumentare la sensibilità nei confronti di una minoranza (insisto) non devo coniare un nome per identificarla così da poterla etichettare, perché è l’etichetta stessa che contribuisce alla discriminazione. La battaglia, secondo me, va condotta al contrario con l’inclusione, non con la separazione. I bambini piccoli, molto piccoli, quando non sono ancora contaminati dal nostro perbenismo, sono fantastici in questo. Loro non vedono un “diversamente abile” si adattano a giocare con lui senza alcuno sforzo. Non hanno bisogno di creare una categoria particolare, per loro è sempre un altro bambino che ha solo delle caratteristiche diverse. Non sono uguali e non hanno bisogno di esserlo per rispettarsi.
Ecco il punto, ancora una volta, e lo ripeto da anni, la battaglia va condotta sul terreno dell’educazione. Ma nessuno se ne occupa più ed il ruolo dell’educatore è miseramente migrato negli anni dalla famiglia alla scuola per finire ora relegato ai Media. Così, tanto per fare un esempio, in ogni pubblicità o serie TV deve essere palesato un rapporto gay, o multietnico per essere “politically correct” e lanciare un messaggio di normalità. Non è NORMALE è solo GIUSTO! I gay non vanno discriminati ma sono una minoranza dell’umanità (almeno per ora). La normalità è ETERO e non devo rischiare il linciaggio per dire ciò che è ovvio. Si arriva così all’assurdo per cui la “nostra cultura” proprio perché è l’ultima, deve rinnegare tutte le precedenti. Totalmente sbagliato. La cultura è figlia dei tempi e come tale va studiata, capita e inserita nel contesto in cui vive. Il fatto che Biancaneve riceva un bacio non consensuale in una fiaba non deve impedire di raccontarla, come per la povera nonna di Cappuccetto Rosso che viene estratta viva dalla pancia del lupo: è un’immagine forte, ma che contiene in sé molti messaggi che vanno oltre l’aspetto macabro. Il problema non è ciò che si racconta ma come lo si spiega. Per lo stesso motivo altrimenti non si dovrebbero raccontare episodi come la deportazione degli ebrei, o le bombe di Hiroshima e Nagasaki che non sono certo politicamente corretti. Invece per questi ci sono associazioni ed eventi annuali per “non dimenticare”. Iniziative giustissime perché è proprio nella comprensione del passato che possiamo sperare di comprendere meglio il presente. Ma proprio qui nasce un pregiudizio catastrofico: “oggi siamo migliori del passato”. NO! Non è vero! La nostra cultura sta semplicemente cambiando, adattandosi all’ambiente in cui si genera. Qualcuno potrebbe obiettare che è l’inverso, cioè che è la nostra sensibilità a plasmare la società. MAGARI! Se fosse così non servirebbe bandire la favola di Biancaneve perché ritenuta sessista, ma saremmo in grado di EDUCARE un bambino a capire la differenza fra favola e mondo reale. Nessuno di noi è diventato un serial killer per le immagini di una nonnina che usciva arzilla dallo stomaco di un lupo, perché c’era una mamma o un papà a raccontarla, a dare gli strumenti per decodificarla, capirla e digerirla. Il male esiste, ma si può combattere e vincere. Non mi preoccupa il fatto che non siano più di moda le favole raccontate ai bambini, mi preoccupa molto che non ci sia una valida alternativa che riponga la stessa attenzione nell’educazione dei sentimenti, senza che questo venga demandato tutto ai Media che non hanno alcun vantaggio ad educare, ma solo ad istruire. Ed è esattamente così che vengono create le categorie: Invece di insegnare cos’è il rispetto, creo le categorie protette. Si tratta di un finto perbenismo in cui non si dice “frocio” per paura di essere additati, non perché si rispettino gli omosessuali. Così non si può parlare di minoranze, ma allora perché devi coniare un nome per definirle? Combattere contro il pregiudizio nei confronti di ogni minoranza non ha nulla a che vedere col travisare le percentuali di cui parlavo prima, ma è il processo opposto che include ogni minoranza nel concetto di UMANITA’. Un disabile, oh c..ribbio!!! ho sbagliato ancora: un “diversamente abile”, deve potersi muovere liberamente in un contesto cittadino civile senza barriere e discriminazioni OGGETTIVE non di nomenclatura. Questo non significherà comunque mai che lo sfortunato in carrozzina possa sentirsi UGUALE a chi si vede sfrecciare a fianco correndo. Resterà parte di una minoranza per la quale la società civile deve SENTIRSI (per educazione) indotta a limitare al massimo ogni disagio senza limitarsi a considerare (ingiustamente) la sola maggioranza. Quindi, come il legislatore è arrivato ad obbligare l’abbattimento delle barriere architettoniche, sta arrivando anche alle unioni civili tra omosessuali con affido e tutto il resto, ma non deve sostituirsi all’educatore. Purtroppo invece stiamo sostituendo l’educazione col falso perbenismo.


Creare Ricchezza.

26/11/2021

La storia dell’uomo è piena di falsi miti.
Ce n'è uno in particolare su cui vorrei porre l'attenzione perché l'abbiamo oramai metabolizzato così profondamente da essere diventato parte integrante della nostra cultura.
Il bisogno di Creare ricchezza.
Non si parla d'altro.
Mi spiace dare questa nefanda notizia e uccidere definitivamente il mito ma, la ricchezza non si crea, casomai si trasforma, proprio come l'energia.
Il problema è che noi siamo abituati a considerarla tale, solo quando entra nel nostro sistema di riferimento e diventa quantificabile rispetto all'unico metro valutativo, il generatore di tutti i valori: il denaro.
Fare un mobile abbattendo un albero non ha nulla a che vedere con la creazione di ricchezza, ma con la trasformazione. Essa è già nell'albero e nell'ingegno dell'uomo che insieme servono alla sua trasformazione. Ma se alla fine bruceremo i mobili vecchi senza aver piantato alberi nuovi, non avremmo creato ricchezza, ma solo consumato risorse.
Non mi sembra difficile.
La sfida che l'umanità dovrà affrontare sarà proprio quella di riuscire a trasformarla a proprio vantaggio, non a consumarla. Il tutto, possibilmente, senza produrre scarti.
Oddio! È il festival delle ovvietà.
Già.
Quello che è meno ovvio è che il concetto vale per tutto, non solo per le materie prime.
Una società che crea povertà altrove, migranti su barconi e profughi di guerre, sta abbattendo alberi per produrre mobili da bruciare sul rogo finale di un falò che produce solo fumo e cenere. Quindi produce solo scarti. Siamo così abituati ad avere a disposizione tutto quel calore da non capire che non è necessario. La paura del freddo ci sta facendo bruciare tutto. Forse basterebbe indossare un maglione invece della canottiera con cui stiamo comodi. Si, perché forse quel maglione potrebbe anche costare meno, alla fine. Ma dovremmo davvero cambiare abitudini, e perché?
Dopotutto il focolare... è casa.


Sei Innovatore o Risolutore?

26/10/2021

Più mi addentro nell’esplorazione del mondo e degli uomini, più mi convinco che ci siano due macro gruppi. Non necessariamente si distinguono per intelligenza, intesa come capacità di calcolo, ma piuttosto per tipologia di sistema operativo. La differenza si evidenzia sempre quando diventa necessario affrontare problemi mai avuti in precedenza. Quando esiste già un algoritmo per gestire una funzione, non resta che farlo girare e porterà sempre alla soluzione che ci si aspetta. Il problema nasce quando l’algoritmo non c’è, e bisogna crearlo per risolvere qualcosa di inaspettato. Ecco, in questo momento potenzialmente rivoluzionario, si palesano in modo inequivocabile i due gruppi. Li vorrei chiamare così: i Risolutori, e gli Innovatori.
Hanno approcci completamente diversi, i primi cercano soluzioni con l’obiettivo di aggirare l’ostacolo cambiando il meno possibile dell’architettura del sistema: quella che in gergo informatico si chiama Patch (toppa). I secondi intravedono l’occasione di rinnovare completamente l’architettura, perché il problema da risolvere ha evidenziato altri potenziali futuri disastri.
Ci vuole intelligenza e preparazione per entrambi gli approcci, ma l’esito è totalmente diverso. Ecco, io sono visceralmente della seconda categoria. Cerco sempre il cambio di approccio, passo direttamente alla release 2.0, non faccio l’upgrade alla versione 1.95887.02 delle ore 8.25.
Come sempre, la bellezza sta nella giusta misura, quindi nessuno degli estremi è da ritenersi auspicabile. Tuttavia è abbastanza evidente che l’approccio dei Risolutori è tanto più efficace quanto più stabile rimane l’ambiente in cui opera, mentre quello degli Innovatori risulta più efficace in un ambiente che tende a mutare velocemente.
Ora la domanda è: cercando di essere il più obiettivi possibile, è ipotizzabile che il nostro ambiente (sociale) sia stabile nelle sue routine e nei suoi algoritmi che lo animano? o si tratta invece di un ambiente in continuo mutamento, in cui il cambiamento indotto dalla tecnica è talmente veloce da non consentirci nemmeno di tenerne il passo? Perché se la risposta è la seconda, mettere solo delle toppe potrebbe anche salvarci momentaneamente dai primi freddi, ma ci renderebbe impreparati al prossimo inverno.
Chiaramente, essere un Innovatore produce grandi insidie, a cominciare dalla possibile deriva in cui ogni cosa vecchia possa sembrare inutile o automaticamente desueta. Ma anche essere un Risolutore può sfociare in patologie che arrivano all’accumulatore seriale. La scommessa della civiltà sta proprio in questo: trovare la giusta misura. Il contrasto di quest’epoca che ci vuole contrapposti fra VAX e NO-VAX esplicita in modo cristallino tutte le pochezze dell’ignoranza totale. In quello che leggo non c’è quasi mai intelligenza, né dei Risolutori, né degli Innovatori. Nella migliore delle ipotesi, gli uni non vedono che l’apice del problema, ed i secondi negano invece ogni nuova soluzione.
Non so dove ci porterà questo modo di affrontare le sfide che il futuro ci riserverà, ma una cosa la so di certo: io avevo in mente tutt’altro. Sono stato smentito nelle soluzioni che speravo fossero innovative e sono state invece parziali, convulse e mai risolutive. Non posso nemmeno essere contento di aver previsto tutti i problemi e le opportunità che si sono presentate tutte esattamente così come avevo immaginato. Per chi mi ha letto in passato ricorderà che, appena scatenata l’epidemia avevo pronosticato nell’ordine:
Necessità di un certificato di guarigione e poi vaccinazione, molto prima che si ipotizzasse il green pass. (che speravo fosse mondiale)
L’inevitabile inflazione dovuta all’uso spropositato del QE (Quantitative Easing) che ha portato al 5% l’inflazione in USA e al 10% in Cina, ed in Italia è solo quintuplicata passando da 0.5% al 2.5% (e non è finita).
La scoperta anche da parte degli istituti finanziari “ufficiali” dell’universo Bitcoin (che spacciavano per schema Ponzi), per la sua peculiarità inflattiva e di riserva di valore.
Invece rimane tuttora solo una previsione (e spero non si verifichi) il tonfo totale e letale della finanza tradizionale (maxi cicli durano in genere un centinaio di anni) che continua a creare ricchezza finta, completamente slegata dalla produzione di ricchezza reale.
Come scrivevo, non sono certo felice di aver avuto ragione, sono invece molto deluso che un’intelligenza mediocre come la mia abbia visto un’opportunità incredibile per cambiare ed innovare il mondo, mentre l’intelligenza molto più ampia e densa della moltitudine abbia solo pensato alle toppe.
Il mio modo di viaggiare non è migliore degli altri, in fondo siamo tutti sullo stesso treno, ma visto che non posso guidare, preferisco comunque sedermi e guardare avanti. Voi sedetevi dove volete.


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Vedo gente che urla!

25/09/2021

No, non si tratta di un ingenuo errore di lessico. Dico che "vedo" gente che urla, non che la sento, perché non la ascolto neanche più.
Oramai è uno squallido teatrino in cui quello che conta è portare l'ennesima prova della propria ragione, scomodando presunti illuminati che fino al giorno prima si consideravano degli imbecilli.
Vedo persone che citano personaggi di cui non hanno mai avuto stima, e talvolta nemmeno rispetto, solo perché allineati e pronti a schierarsi nella propria battaglia contro gli altri. Qui contano gli eserciti e si recluta chiunque sia disposto a combattere. Più ha la voce grossa e meglio è.
Così diventano improvvisamente opinionisti anche le soubrette, i calciatori, i candidati premi Nobel (che come è noto non possono sapere di esserlo), l'avvocato che conosce a memoria la costituzione, la casalinga che sa cos'è una dichiarazione firmata, il medico obiettore che oltre all'aborto, è anche contro il veleno del vaccino, ed una miriade di paladini della libertà, o contro la libertà.
C'è chi dice di aver letto dati di cui non conosce neanche l'esistenza, e chi quei dati li legge come vuole.
Sono così schifato da tutto questo ciarpame, da lasciar perdere anche i contenuti quando, e se capita di trovarne.
Oramai la questione ha prevaricato i confini della dialettica inondando tutto.
Non è più una questione ideologica perché l'ideologia è figlia della lotta di classe, che oggi non esiste più. Non è certamente filosofica perché la gente ha smesso di farsi domande. Non è neppure logica.
Oramai è solo il surrogato di una droga sintetica che procura endorfine. La necessità imprescindibile di sentirsi appartenenti ad un gruppo, esattamente come gli ultras di tifoserie opposte.
Spesso la partita neanche la guardano.
Non è certo uno spettacolo edificante, ma prenderne atto è doveroso.
Dire che è colpa degli altri è esattamente quello che farebbe il tifoso, quindi no. È colpa nostra. La società non sta mostrando il peggio di sé, sta mostrando tutta sé stessa.
Siamo esattamente questo.
Un totale fallimento?
No. Sta solo cambiando le foglie, nel bel mezzo di un autunno che pretende il suo sacrificio: e quelle foglie sono le nostre regole troppo fragili per resistere al prossimo inverno, e quindi cadono e muoiono. La società è un organismo che nasce, vive e muore, per poi rinascere ancora.
La morte è necessaria alla vita.
La necessità di nuove regole e l'incapacità di generarle, porterà alla nascita di nuove strutture sociali più adattate al nuovo ambiente. Si plasmeranno nuove coscienze, ma la velocità che ci ha imposto questo repentino autunno ci coglie impreparati e cerchiamo di restare aggrappati ad un ramo che non ci vuole più, perché non siamo più né indispensabili, né tantomeno utili alla sua sopravvivenza.
Altre foglie nuove verranno, e con loro nuovi fiori.




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Afghanistan:
ADDIO LIBERTA’?

19/08/2021

Quando tutti hanno le risposte giuste, sono le domande ad essere sbagliate.
Chiunque dia giudizi sulla situazione afgana pecca 2 volte.
Primo di presunzione. La stessa che rende tutti virologi o commissari tecnici in egual misura, dipendendo dall'interlocutore, o dal bar.
Soprattutto in un mondo dove puoi trovare milioni di persone che credono che la terra sia piatta, o negano il Big bang perché in antitesi con i dogmi religiosi, qualcuno che ti ascolta lo trovi sempre.
Il secondo peccato è la mancanza di umanità o compassione. Quando si tratta di vite umane, ogni altro aspetto dovrebbe risultare secondario e spesso ce lo dimentichiamo.
Detto questo, poiché siamo tutti peccatori (e non mi riferisco al significato religioso del termine), è normale avere delle opinioni al riguardo. Naturalmente vale anche per me.
Io ho avuto la fortuna di viaggiare molto e di incrociare personalmente molte altre culture. Non nascondo, e chi mi conosce lo sa bene, che ho manifestato più volte la mia netta contrapposizione con alcune di esse, ma è altrettanto vero che ho sempre cercato di fare l'ospite garbato, ovunque mi recassi, perché saper essere un buon ospite, è parte integrante della mia (nostra?) cultura.
La mamma si raccomandava sempre: sii educato.
Ed ecco il punto cruciale: ci dimentichiamo spesso che per arrivare qui, a questa "educazione", abbiamo fatto un percorso durato 1000 anni, e abbiamo potuto o dovuto vivere la rivoluzione francese, la caduta del nazismo, la nascita della repubblica, le conquiste sociali. Siamo passati attraverso l'umanesimo, il rinascimento, l'illuminismo. È stato un processo lento, e anche sofferto. Ogni nascita passa attraverso la sofferenza e attraverso il tempo. Vale per tutto. Il cambiamento richiede energia e tempo. Prima si formano le coscienze, e solo successivamente si proteggono con le leggi. Diversamente sarebbe come scrivere le formule di un fenomeno fisico che non si è ancora scoperto o sperimentato.
Quindi, se da un lato sono veramente e umanamente triste per il futuro degli afgani, dall'altro non posso che pensare che fosse una missione con poche speranze. Un presidio armato non educa, al massimo protegge chi aiuta il processo di autodeterminazione. Avrebbero potuto spendere meglio le risorse, questo è certo, ma non commettiamo l'errore di giudicare i fatti al di fuori dal tempo e dal contesto. Un talebano che vive da nomade nel deserto che conosce solo i dettami del corano, per come glieli hanno sempre raccontati, che frusta la moglie, non è peggiore di un inquisitore che andava bruciando streghe in nome di Dio. Infatti nel secondo caso, si presume che il prelato fosse addirittura più colto e con una consapevolezza molto più profonda delle proprie azioni.
La responsabilità dell’incomunicabilità o dell’ignoranza, è di chi non la combatte, non degli ignoranti. Anche la botte di rovere più pregiata non produrrà alcun vino se non viene riempita e custodita a dovere. E di sicuro non può riempirsi da sola. Nessuno può sapere quanto sia ignorante fino a quando non incontra qualcuno meno ignorante di lui: si tratta di saper utilizzare il principio dei vasi comunicanti.
L' Europa è stata un crocevia di popoli, di correnti, di contaminazioni. Nell'Islam il processo iniziato con la "primavera araba" è stato solo il primo vagito di un neonato che gattona incerto. Non sa ancora camminare, e non è opportuno mettergli a disposizione una macchina per sperare di vederlo scorrazzare allegro e spensierato, col gomito fuori dal finestrino.
Ed invece sento qualcuno che blatera dicendo che sono passati 1000 anni. Sì per noi. Sei mai andato in Afganistan, o anche solo in Arabia? E non parlo del deserto afgano. Parlo di Gedda, o Riyad? No?
Io non vivo lì e non conosco che le sensazioni che ho provato, ma se anche tu avessi respirato quella cultura, capiresti che c'è bisogno di tempo e di fatica.
Oggi, ogni cambiamento è reso sicuramente più veloce di quanto non sia stato nel medio evo, e questo non è necessariamente un bene, ma comunque ci vuole tempo. Noi stessi ci stiamo mettendo una generazione per accettare i diritti lgbt, e pretendiamo che gli altri facciano un salto di secoli in 20 anni?
Quindi in conclusione se dovessi tirare le somme, pur nella mia assoluta consapevolezza di essere viziato nei pensieri e prigioniero, tanto quanto i fondamentalisti, di altrettanti pregiudizi, (anche se diametralmente opposti), direi che l'unica via sia la conquista della propria dignità come popolo.
Il processo è già in atto e grazie alla facilità con cui possono arrivare le informazioni oggi, i giovani afgani potranno scegliere e combattere per i valori che sentiranno come propri, non necessariamente per i nostri. Rimango infatti dell'idea che la nostra società non possa auto-proclamarsi come risultato migliore auspicabile e definitivo, ma come terreno di studio per limitare le derive che con essa stiamo pagando e continueremo a pagare in futuro.
L' inciviltà altrui non si misura con la civiltà propria, ma con la capacità di non produrre "scarti". Lo stiamo capendo ora con le energie rinnovabili, ma fatichiamo a pensarlo anche per gli uomini.
È sicuramente un argomento complesso che tocca i cardini stessi della filosofia e meriterebbe riflessioni approfondite. Semplificando, il mio pensiero si riassume con una sorta di allegoria in cui l' ETICA è il sole: indispensabile alla vita per il suo calore, ma così accecante da non poter essere osservato direttamente. È necessario utilizzare dei filtri molto scuri per poterne scorgere i contorni. Così l'uomo crea la MORALE. Un filtro, uno strumento figlio dei tempi che muta con essi financo a diventare il più sofisticato cannocchiale astronomico, ma sempre con un filtro davanti. E crediamo di poter vedere il sole, ma confondiamo la possibilità di guardare con la libertà di vedere.
E questa libertà, per sua stessa accezione, non può mai essere imposta, proprio perché potrebbe accecare.
vQuando tutti hanno le risposte giuste, sono le domande ad essere sbagliate.
Chiunque dia giudizi sulla situazione afgana pecca 2 volte.
Primo di presunzione. La stessa che rende tutti virologi o commissari tecnici in egual misura, dipendendo dall'interlocutore, o dal bar.
Soprattutto in un mondo dove puoi trovare milioni di persone che credono che la terra sia piatta, o negano il Big bang perché in antitesi con i dogmi religiosi, qualcuno che ti ascolta lo trovi sempre.
Il secondo peccato è la mancanza di umanità o compassione. Quando si tratta di vite umane, ogni altro aspetto dovrebbe risultare secondario e spesso ce lo dimentichiamo.
Detto questo, poiché siamo tutti peccatori (e non mi riferisco al significato religioso del termine), è normale avere delle opinioni al riguardo. Naturalmente vale anche per me.
Io ho avuto la fortuna di viaggiare molto e di incrociare personalmente molte altre culture. Non nascondo, e chi mi conosce lo sa bene, che ho manifestato più volte la mia netta contrapposizione con alcune di esse, ma è altrettanto vero che ho sempre cercato di fare l'ospite garbato, ovunque mi recassi, perché saper essere un buon ospite, è parte integrante della mia (nostra?) cultura.
La mamma si raccomandava sempre: sii educato.
Ed ecco il punto cruciale: ci dimentichiamo spesso che per arrivare qui, a questa "educazione", abbiamo fatto un percorso durato 1000 anni, e abbiamo potuto o dovuto vivere la rivoluzione francese, la caduta del nazismo, la nascita della repubblica, le conquiste sociali. Siamo passati attraverso l'umanesimo, il rinascimento, l'illuminismo. È stato un processo lento, e anche sofferto. Ogni nascita passa attraverso la sofferenza e attraverso il tempo. Vale per tutto. Il cambiamento richiede energia e tempo. Prima si formano le coscienze, e solo successivamente si proteggono con le leggi. Diversamente sarebbe come scrivere le formule di un fenomeno fisico che non si è ancora scoperto o sperimentato.
Quindi, se da un lato sono veramente e umanamente triste per il futuro degli afgani, dall'altro non posso che pensare che fosse una missione con poche speranze. Un presidio armato non educa, al massimo protegge chi aiuta il processo di autodeterminazione. Avrebbero potuto spendere meglio le risorse, questo è certo, ma non commettiamo l'errore di giudicare i fatti al di fuori dal tempo e dal contesto. Un talebano che vive da nomade nel deserto che conosce solo i dettami del corano, per come glieli hanno sempre raccontati, che frusta la moglie, non è peggiore di un inquisitore che andava bruciando streghe in nome di Dio. Infatti nel secondo caso, si presume che il prelato fosse addirittura più colto e con una consapevolezza molto più profonda delle proprie azioni.
La responsabilità dell’incomunicabilità o dell’ignoranza, è di chi non la combatte, non degli ignoranti. Anche la botte di rovere più pregiata non produrrà alcun vino se non viene riempita e custodita a dovere. E di sicuro non può riempirsi da sola. Nessuno può sapere quanto sia ignorante fino a quando non incontra qualcuno meno ignorante di lui: si tratta di saper utilizzare il principio dei vasi comunicanti.
L' Europa è stata un crocevia di popoli, di correnti, di contaminazioni. Nell'Islam il processo iniziato con la "primavera araba" è stato solo il primo vagito di un neonato che gattona incerto. Non sa ancora camminare, e non è opportuno mettergli a disposizione una macchina per sperare di vederlo scorrazzare allegro e spensierato, col gomito fuori dal finestrino.
Ed invece sento qualcuno che blatera dicendo che sono passati 1000 anni. Sì per noi. Sei mai andato in Afganistan, o anche solo in Arabia? E non parlo del deserto afgano. Parlo di Gedda, o Riyad? No?
Io non vivo lì e non conosco che le sensazioni che ho provato, ma se anche tu avessi respirato quella cultura, capiresti che c'è bisogno di tempo e di fatica.
Oggi, ogni cambiamento è reso sicuramente più veloce di quanto non sia stato nel medio evo, e questo non è necessariamente un bene, ma comunque ci vuole tempo. Noi stessi ci stiamo mettendo una generazione per accettare i diritti lgbt, e pretendiamo che gli altri facciano un salto di secoli in 20 anni?
Quindi in conclusione se dovessi tirare le somme, pur nella mia assoluta consapevolezza di essere viziato nei pensieri e prigioniero, tanto quanto i fondamentalisti, di altrettanti pregiudizi, (anche se diametralmente opposti), direi che l'unica via sia la conquista della propria dignità come popolo.
Il processo è già in atto e grazie alla facilità con cui possono arrivare le informazioni oggi, i giovani afgani potranno scegliere e combattere per i valori che sentiranno come propri, non necessariamente per i nostri. Rimango infatti dell'idea che la nostra società non possa auto-proclamarsi come risultato migliore auspicabile e definitivo, ma come terreno di studio per limitare le derive che con essa stiamo pagando e continueremo a pagare in futuro.
L' inciviltà altrui non si misura con la civiltà propria, ma con la capacità di non produrre "scarti". Lo stiamo capendo ora con le energie rinnovabili, ma fatichiamo a pensarlo anche per gli uomini.
È sicuramente un argomento complesso che tocca i cardini stessi della filosofia e meriterebbe riflessioni approfondite. Semplificando, il mio pensiero si riassume con una sorta di allegoria in cui l' ETICA è il sole: indispensabile alla vita per il suo calore, ma così accecante da non poter essere osservato direttamente. È necessario utilizzare dei filtri molto scuri per poterne scorgere i contorni. Così l'uomo crea la MORALE. Un filtro, uno strumento figlio dei tempi che muta con essi financo a diventare il più sofisticato cannocchiale astronomico, ma sempre con un filtro davanti. E crediamo di poter vedere il sole, ma confondiamo la possibilità di guardare con la libertà di vedere.
E questa libertà, per sua stessa accezione, non può mai essere imposta, proprio perché potrebbe accecare.



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La rana “tiepida”

22/06/2021

C’è un pericolo che passa inosservato. È come la storiella dell’acqua calda e la rana.
Se gettate una rana dentro ad una pentola di acqua bollente, salta fuori immediatamente mettendosi in salvo, ma se la rana viene immersa nell’acqua fredda e si scalda l’acqua a poco a poco, la povera rana finirà lessa senza nemmeno accorgersene.
Sono dispiaciuto per la rana, ma io mi voglio focalizzare sull’acqua. Non deve essere necessariamente fredda o bollente.
Non deve essere tutto o bianco o nero. A proposito di “nero”: il razzismo è una piaga che deve essere debellata senza alcuna eccezione. Tuttavia pensare che tutte le razze siano uguali è da ignoranti. Non è l’omologazione l’obiettivo, ma la valorizzazione delle diversità. Ci penserà l’entropia a renderci tutti uguali fra qualche milione di anni. La natura funziona così. L’universo funziona così.
Tuttavia oggi l’acqua non è fredda, ma nemmeno bollente.
Esattamente come accade per la parità di genere. Altra idiozia per come viene presentata. Gli uomini e le donne sono profondamente diversi, chi li vuole uguali commette un doppio errore: elimina le caratteristiche distintive e preziose da un lato, e contribuisce ad appiattire un mondo pieno di colori. Quindi è schizofrenia pura fare leggi per garantire i transgender da un lato, per poi affermare che siamo tutti uguali dall’altro.
Perché non facciamo le gare olimpiche miste allora? Dovremmo.
Combattere perché tutti abbiano gli stessi diritti (sacrosanto) è totalmente diverso dall’affermare che non ci sono differenze.
Così, mentre prima si saltava fuori dalla pentola bollente, sfuggendo dal problema, ora ci facciamo cucinare a fuoco lento.
Essere razzista è da ignoranti, esattamente come essere antirazzista. È la posizione Bianco/Nero che va combattuta. Qualsiasi posizione. La verità è un percorso, non è mai assoluta: la verità è storica (Nietzsche)
Ogni cambiamento della società è un percorso che è sempre prima culturale, poi sociale (di ordinamento legale). Cercare di formare le coscienze per legge, è un’operazione che palesa il totale fallimento dell’impianto educativo del nostro tessuto sociale.
È “vero” ciò che sento, non ciò che sono obbligato a sentire.

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La scadenza

27/05/2021

La verità è un processo che non ha mai fine. Come ogni cosa, anch'essa è soggetta al tempo. Sembra proprio che tutto nell'universo abbia una data di scadenza. Tuttavia è un'esigenza primaria per l'umanità costruire delle certezze: sono ripari sicuri, che proprio grazie alla loro stessa granitica resistenza, ci aiutano ad affrontare tutte le incertezze che la vita ci riserva. Esse si rafforzano con gli anni, strato dopo strato, rendendoci sempre meno propensi al cambiamento. Cambiare significa uscire fuori da quel riparo costruito con tanta fatica. Ecco perché i giovani sono molto più aperti alle novità: prendono tutto addosso senza alcuna protezione e senza nulla da perdere. Beata gioventù. Invece di additare l'incoscienza di un giovane a cui rimproveriamo di non sapere cosa sia la vita, cerchiamo di insegnargli come affrontare il dolore e come rialzarsi, senza cedere all’impulso di offrirgli il nostro riparo, diventerebbe una prigione. Sicura, ma pur sempre una prigione.
Tutto ciò che è vero per noi, è vero solo per noi, perché non vediamo mai le cose per quello che sono, ma per quello che siamo, o siamo stati. E anche noi, come ogni verità, abbiamo una scadenza.
Il dramma per i miei coetanei che veleggiano in prossimità della boa dei 50 anni è che il mare è molto più agitato di quanto non lo sia mai stato prima. Ma non si tratta semplicemente di una tempesta improvvisa, sta cambiando tutto. Le regole che garantivano una navigazione sicura non valgono più. In questo momento ci sono solo 2 soluzioni: o continuiamo a maledire Poseidone, continuando a manovrare come abbiamo sempre fatto, oppure cerchiamo di capire cosa stia succedendo per restare a galla.
Io, per esempio, sto facendo una fatica improba a non considerare “fuori luogo” tutte le scene omosessuali inserite in ogni dove. Dalle pubblicità alle serie TV. Non ne sento il bisogno. Ma il problema sono io! Continuo a ripetermelo e a rimproverarmi in silenzio. È evidente, perché le stesse scene passano completamente inosservate ai più giovani. Alcuni (di noi) pensano che è proprio questo il problema, e cioè che stiamo de-moralizzando le nuove generazioni: NO! La morale è figlia dei tempi, ed ha una scadenza come ogni altra presunta verità.
La deriva pericolosissima di questo ipotetico lassismo culturale non è certo nella distruzione delle etichette che stanno crollando, rendendo molto più difficile la decodifica del nostro mondo che pretendiamo di conoscere. Il pericolo è altrove e continuo a ripetermelo. Il pericolo è l’incapacità di comprendere i sentimenti. Si insegna di tutto, ma i sentimenti sembrano debbano essere delegati all’individuo. Così accade che in una società che premia solo l’efficienza come unico parametro valutativo, nessuno si prenda la briga di insegnare i sentimenti. Così i giovani pur non avendo bias cognitivi, e per questo molta più flessibilità nella lettura della realtà, hanno il vantaggio di non pre-giudicarla, ma spesso mancano degli strumenti per decodificarla, ed elaborarla. Questo è il dramma.
Noi abbiamo il giudizio formato e granitico che semplicemente ci rende inaccettabile ciò che non comprendiamo. I giovani no. Loro vedono, ma spesso non riescono a capire. Non a caso i suicidi sono la seconda causa di morte fra i 10 e 25 anni in Italia. La cosa mi spaventa molto perché sono convinto che per un ragazzo/a che arriva ad uccidersi, ce ne sono almeno 5 che non ne hanno avuto il coraggio, e molti di più che ci hanno pensato. E tutte queste persone sono la generazione di domani. Una generazione psicologicamente debole, che porta in dote sofferenze e fragilità così profonde che probabilmente avrà come unico obbiettivo quello di proteggersi, che scelte farà per il futuro?
È ciò che è successo a noi (vecchi) con l’ambiente. Non l’abbiamo metabolizzato a dovere perché non era un nostro problema e guardate che casino abbiamo combinato. Lo è invece per i giovani di oggi perché lo stanno vivendo ora, nel periodo della vita in cui si strutturano i sentimenti. La sensibilità si forma in base a ciò che si vive. Ma se da un lato essere in grado di vedere un problema è il primo passo per risolverlo, dall’altro non avere soluzioni disponibili crea un senso di inadeguatezza che aggiunge un altro problema al precedente.
Ma allora che facciamo? Da un lato ci siamo noi, una generazione di vecchi miopi che però hanno una spina dorsale forte di un’esperienza di vita che però non serve a nulla alla nuova generazione che, dall’altro lato, ha invece una vista perfetta ma una schiena fragile, priva di tutti i “comandamenti” che hanno forgiato le nostre anime. Non ho scritto comandamenti a caso. Anche restando profondamente critico nei confronti della religione, devo convenire che la graduale perdita di importanza della Chiesa come collante fra i giovani, non è stata compensata da nessuna forma alternativa di educazione dell’anima, lasciando così che la società civile abdicasse dal suo ruolo primario che non è quello di forgiare cittadini, ma prima di tutto: uomini e donne.
Fa tutta la differenza del mondo. È come obbligare qualcuno a non inquinare per non pagare una multa, o insegnare, invece, che l’ambiente non è tuo. Fino a quando cercheremo le soluzioni per legge, troveremo solo altre etichette per decodificare tutto senza fatica, scagliandoci (solo ideologicamente) contro di esse.
Siamo in preda ad una schizofrenia endemica, come le malattie auto-immuni di cui siamo spesso vittime inconsapevoli. E purtroppo sentiamo la necessità essere una possibile soluzione per ciò di cui invece siamo stati sicuramente la causa.


Come uscirne fuori

07/04/2021

Come uscirne fuori.
Ci sono poche cose in cui tutti sono d’accordo. E questa è una.
Un’altra, di grande attualità, su cui sembrano convergere proprio tutti, da credenti ad atei, da scienziati a complottisti, fino ad arrivare ai terrapiattisti e rettiliani, è che l’unico modo per vincere il Covid sarà l’immunità di gregge.
È una convinzione talmente radicata che a farci un partito politico si vincerebbero le elezioni.
L’unico problema è che per arrivare a questo traguardo si dovrebbero ammalare tutti.
La scienza, che non è infallibile ma la cosa momentaneamente meno falsa che esista (proprio perché si basa su esperimenti oltre che su ipotesi), tenta di venirci in soccorso accelerando il contagio, cercando però di limitare i danni con i vaccini. Qui nascono i problemi proprio perché l’evidenza scientifica non può coprire ogni singolo caso, ma si lavora per approssimazioni. Quello che la gente non capisce è che sono le stesse approssimazioni con cui il vostro pilota vi fa atterrare nell’isola greca in cui state andando in vacanza, con cui il medico vi prescrive un antinfiammatorio e con cui si è stabilito che l’energia nucleare fosse sicura. Tutte approssimazioni che possono fare vittime.
Ma rispetto a tutte queste possibili disgrazie, oggi mettersi in macchina per andare a fare la spesa o al lavoro, è comunque statisticamente un rischio più grande. Ho scritto “oggi” proprio perché anche l’auto e la mobilità subiranno grandi evoluzioni con la guida autonoma e l’intelligenza artificiale probabilmente riducendo quasi a zero, nel futuro, la probabilità di incidenti. Così sarà anche per la medicina, con approssimazioni sempre più basse. Ma ne pagheremo il prezzo. In qualche modo.
È un prezzo che saremmo disposti a pagare? A giudicare da quante auto ci sono in circolazione direi di sì: nessuno rinuncia a spostarsi nonostante muoiano 1.35 milioni di persone ogni anno.
Tuttavia, mentre nella maggioranza dei casi il tentativo di limitare i “danni collaterali” passa attraverso un processo logico, il Covid sembra aver intaccato pesantemente anche la capacità di ragionare. Infatti mentre per le auto, per esempio, si sono introdotte le cinture di sicurezza, barre anti intrusione e tecnologie dei materiali, per il Covid si è trovata una sola soluzione: non vivere.
È come se avessero detto “no!” alle auto, ai farmaci e ai voli aerei, perché sono pericolosi.
Io il Covid l’ho avuto, e non è bello, per nulla. Sono stato fortunato, esattamente come quando esci da un brutto incidente in cui ti sei trovato coinvolto, incolpevolmente. Ho fatto di tutto per evitarlo, ma in strada si sa, non ci sei solo tu.
Ma vorrei capire una cosa. Se per limitare i morti nelle strade è stato obbligatorio inserire le cinture di sicurezza nelle auto, avremmo dovuto aspettare che le mettessero tutti prima di ricominciare a guidare? No. Era logico. Chi le ha montate può tornare in strada. Appunto, ERA logico.
Col Covid la logica non esiste. Se io ho fatto il vaccino, o sono immune per aver avuto la malattia, sono recluso ed ho le stesse limitazioni, esattamente come gli altri! Doppia beffa! Ho giocato alla roulette russa con la vita, ho vinto, ma solo sulla carta. Se il piano vaccinale procedesse a ritmi che ci si aspetterebbero in un paese evoluto non sarebbe un problema aspettare tutti, ma poiché le previsioni parlano di 17 mesi (e si tratta di una sottostima) dall’inizio, direi che sarebbe il caso di riattivare i processi logici.
Vorrei che qualche politico illuminato mi spiegasse perché 10 amici, tutti immunizzati, non potrebbero, per esempio, andare in un ristorante per la gioia loro e del ristoratore!
A distanza di un anno si sta “ipotizzando” il passaporto vaccinale? Ridicoli. Doveva essere la prima cosa a cui pensare. Invece di pagare qualcuno che prende la temperatura con i termometri da 4 euro comprati su Amazon, basta un’App con un lettore di QR code (generato a doppio fattore, con tecnologie disponibili e sicure) che identifica se sei immunizzato o vaccinato leggendo i dati da una banca dati unificata. Invece abbiamo le ULSS che non riescono nemmeno ad intrecciare i dati sanitari tra loro! Ridicoli! Lo avevo già scritto in un articolo il 30 dicembre scorso (LA SALVEZZA).
Non c’è logica in nulla. Persino nel migliore dei casi vissuto personalmente, vi racconto come ho fatto per prenotare un tampone molecolare a pagamento in una delle strutture meglio organizzate. Nel sito della società si può facilmente accedere alla sezione “Tamponi” e verificare la disponibilità al prelievo (in tempo reale) col un calendario diviso per fasce orarie. Fantastico.
Procedo e inserisco come richiesto, nome, cognome, codice fiscale, e mail per la lettura del referto on line. Mi arriva subito la conferma dell’appuntamento con l’orario scelto e con un codice. Fantastico.
Mi reco nella struttura non più di 5 minuti prima come espressamente richiesto e all’ingresso trovo una signorina gentilissima che mi chiede di igienizzare le mani prima di tutto, poi, una volta presa la mia temperatura e identificato il mio codice con la mia prenotazione mi consegna un foglio da compilare con una penna.
Chissà cosa mi chiederanno? Gli stessi dati che avevo scritto personalmente e con cui avevo fatto la prenotazione il giorno prima!
Vabbè, non voglio polemizzare e una volta compilato il questionario aspetto il mio turno per pagare allo sportello. Un po’ meno fantastico, un po’ più italico.
Arrivo di fronte allo sportello, e consegnato il foglio la signorina cosa fa? Riscrive gli stessi dati al PC, copiandoli dal foglio di carta! Gli stessi dati che avevo scritto per la prenotazione nel loro sito.
A questo punto nulla è fantastico, ma totalmente illogico!
Devo dire che la gentilezza del personale, e la velocità del referto sono stati di prim’ordine, e torno a sottolineare che si tratta sicuramente del miglior servizio tamponi che abbia provato, ma perché non fare quel passo in più? Eviterebbe possibili errori di copiatura, tempo, carta e penne che passano fra le mani di persone possibilmente infettive. Insomma la logica, dov’è finita?
Questo non smetterà mai di farmi arrabbiare.
La civiltà di un paese non ha nulla a che vedere con la sua efficienza, ma se da un lato l’una passa attraverso l’educazione dei cittadini, l’altra ne certifica l’inadeguatezza.

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Il mio Covid

12/03/2021

Sì. L'ho preso anche io. Non so come, o dove, né tanto meno da chi.
Non farò certamente la cronistoria dei sintomi ma vorrei raccontare qualcosa di molto più interessante.
L'esperienza.
Prima di tutto l'organizzazione. Avendo accusato sintomi mi sono recato autonomamente a fare il tampone molecolare. Tutti gli operatori con cui ho avuto a che fare, anche solo per qualche minuto, sono stati gentilissimi e professionali. Ecco, la parte bella termina qui. Subito dopo il prelievo mi è stato detto di avere pazienza, e che avrei ricevuto l'esito non prima di 4/5 giorni. Infatti, ho avuto l'SMS esattamente cinque giorni dopo. A questo punto la mia prima perplessità riguarda i dati giornalieri che con tanta precisione vengono snocciolati ogni giorno in TV. Che senso ha evidenziare precise tabelle comparative su base giornaliera, se i dati possono essere sfalsati di 5 giorni? Altra perplessità: perché, per fare il tampone, si devono scrivere su un modulo fotocopiato tutti i propri dati che dovranno essere digitalizzati in fase di accettazione da un addetto (con possibili errori) per creare l'etichetta identificativa? Perché non lasciare (almeno per chi è in grado) la possibilità di inserire personalmente i propri dati, evitando un passaggio che dilata i tempi e può generare errori?
Ma soprattutto: l'attesa non è piacevole. Specialmente quando non hai nessuna certezza che abbiano scritto correttamente il numero di telefono. Io ero giunto alla conclusione di aver perso il mio test.
Quando senti di essere positivo, la conferma è necessaria. Ne hai bisogno per sapere che non sei impazzito, e che non è il tuo cervello a fare brutti scherzi. 125 ore di attesa sono troppe.
Chi ha avuto la fortuna di prendersi il virus senza sintomi non lo sa, ma se l'hai sentito, hai avuto un'esperienza unica. Sono oramai in via di guarigione (spero), e mi ritengo fortunato. Non sono dovuto andare in ospedale. Ma ho vissuto giorni di incertezza. Questa è la cosa più angosciante. È come una confezione famiglia di ovetti kinder con dentro una sorpresa diversa ogni giorno. E devi scartare il prossimo. Speri sempre sia l'ultimo e che la sorpresa non sia con le sirene spiegate, maledicendo tutte le volte che da bimbo ritenevi che quella della sorpresa fosse la parte migliore.
Oggi è toccato al mal di gola. Poteva andare molto peggio.
Ieri ho trovato un’emicrania da record. E prima ancora il dolore al petto, i dolori agli occhi, stanchezza disarmante, tosse, male alle articolazioni, temendo sempre quella maledetta insufficienza respiratoria. Tutto sopportabile, al punto di vergognarsi a dirlo, quando pensi a chi ha avuto meno fortuna.
Ma è proprio essere lì, intenti a guardare la pallina girare in quella roulette, aspettando il suo inesorabile verdetto. Questo è quello che rende questa malattia unica. Perché non solo non hai nessun potere sulla pallina, ma non puoi nemmeno decidere la posta in gioco né, tanto meno, smettere di giocare. Sei uno spettatore inerme di un gioco in cui finalmente capisci quanto siano incerte tutte le tue certezze.
Non lo puoi spiegare se non ci sei passato. E a questo si aggiunge l’ansia per i tuoi cari, le persone che potresti aver inavvertitamente contagiato. Così, appena pensi di poterti rilassare per il tuo decorso che sembra andare verso un miglioramento, cominci a fare i conti con i tempi di possibile incubazione per chi ti è stato vicino, e scopri che da 2 a 15 giorni cambia tutto. E potrebbe cambiare la malattia, potrebbe procurare agli altri sintomi più gravi, perché nonostante tu sia in perfetta salute il virus ti ha preso a randellate come un sacco di patate, cosa potrebbe fare agli altri meno forti? E tutta l’incertezza che avevi per te si trasforma in vera angoscia per i tuoi cari, con l’aggravante di sentirti anche il diretto responsabile.
A tutti quelli che hanno avuto più fortuna (non smetto di considerarmi fortunato), e non hanno passato nulla di tutto questo, chiedo solo di non essere sciocchi nel giudicare questo virus con superficialità. Abbiate rispetto per la sorte: potreste trovarvi a fare i conti anche voi con quella pallina.

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L'occasione perduta

02/02/2021

Nella sua immensa tragedia, l’epidemia poteva essere un’opportunità straordinaria. Per una volta avremmo dovuto essere uniti e determinati.
Macché!
Ognuno per la sua strada.
Tutti con la presunzione di poter affrontare meglio degli altri un problema mondiale. È proprio questo che abbiamo perso: la visione d’insieme. Se il problema nasce esattamente dal fatto che siamo tutti interconnessi e non esistono più confini, come si può pensare di avere soluzioni che non siano altrettanto interconnesse e condivise. Si fanno G7, G8, G20, per discutere di politiche economiche, e a nessuno è venuto in mente di fare “G TUTTI” per gestire la pandemia? Forse i morti europei sono diversi dagli asiatici o dagli americani? A mio modesto avviso avremmo dovuto subito “preparare l’opinione pubblica” ad un futuro inarrestabile che renderà inadeguate moltissime delle nostre “abitudini”.
Partiamo dai passaporti, che sarebbero dovuti convertire tutti digitalmente e renderli “sanitari” in attesa dell’arrivo del vaccino. Come si può immaginare che io per entrare in Arabia (per esempio) dovrò (forse) esporre un certificato di vaccinazione in carta, e scritto in italiano? E lo stesso vale al contrario. Non era chiaro sin da subito che avremmo dovuto gestire la cosa a livello globale? Avviso: a chi venisse solo in mente di affermare che è complicato si vada ad informare adeguatamente. La tecnologia per mettere in piedi un registro condiviso, anonimo e decentralizzato esiste e funziona, solo che si pensa che tracciare la provenienza di una mucca sia più rilevante di quella di una persona. Esatto! Le mucche possono avere il passaporto elettronico, inalterabile, certificato, ma noi: un libretto di carta.
Ma se l’ho pensato io nella mia infinita ignoranza, possibile che tutti questi illuminati politicanti che hanno in mano le sorti dei nostri paesi, non c’abbiano nemmeno provato? Non dico che avrebbero dovuto riuscirci, ma almeno affrontare il problema?
Macché!
E con l’economia? Anche qui ognuno pensa a sé
Così le politiche di “aiuti” sfociano quasi sempre con immissione di denaro dalle banche centrali che in gergo viene chiamato pittorescamente “helicopter money”. C’è però un grosso limite a questa politica di cui nessuno parla. Non mi riferisco all'inevitabile inflazione (che poiché viene spalmata in anni, ha l’effetto di una copiosa dose di vasellina per rendere meno doloroso il rapporto). Il vero problema è che per funzionare, e riavviare i cicli economici (consumo), il denaro deve essere speso. Il fatto che le borse stiano pompando come matte significa invece che chi ha soldi li investe in azioni, non in lavatrici o divani (nonostante gli sconti).
Questo porterà all'inevitabile scoppio della bolla aggiungendo dramma al dramma.
Ma anche qui nessuna politica unitaria, tutti più intelligenti.
Siamo all'assurdo per cui si afferma (senza pudore) che “il debito pubblico non verrà mai ripagato, ma è sufficiente che sia finanziabile da altro debito”. E nessuno dice niente. Provate voi però ad andare in banca a chiedere un mutuo, per pagare il quale chiederete un altro mutuo, e così via all'infinito. Ve lo aprirebbero? Con quale logica? Alla fine chi pagherebbe? E la gente mi dice che i bitcoin non sono soldi veri! Cosa c’è di vero (o etico) in una moneta che viene svalutata “volutamente” per poter ripagare sé stessa?
L’economia, la finanza, i diritti umani, sono argomenti che andrebbero gestiti globalmente, dobbiamo smettere di pensare di essere meglio degli altri. L’occasione l’abbiamo avuta, almeno per ipotizzare qualcosa.
Macché!
Tutti ricorderanno il 2020 come l’anno del Covid.
Io ricorderò il 2020 come la più grande occasione perduta.

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Giochiamo?

13/01/2021

Il dubbio è il peggior nemico dell’atleta.
Il dubbio è il miglior amico del filosofo.
L’atleta non deve fare il filosofo (?)
Questo semplice e sciocco sillogismo evidenzia che spesso ambiti di vita diversi prevedono approcci diversi, in relazione agli obbiettivi che si hanno.
È ovvio che per ottenere il massimo in una competizione sportiva devi essere convinto di vincere, tuttavia (nel tennis per esempio) è dimostrato che talvolta, quando non si ha alcuna aspettativa di vittoria, l’essere liberi di esprimere al meglio il proprio gioco, incuranti del risultato, possa incredibilmente portare anche ad una vittoria inaspettata, contro ogni pronostico. Succede negli sport individuali in cui la componente di “intelligenza tattica” ha un certo peso, proprio come nel tennis.
Quindi spesso conviene entrare in campo rilassati, senza la smania di vincere a tutti i costi, ma con la voglia di esprimere al massimo il proprio gioco, e magari imparare anche qualcosa dall'avversario. La singola vittoria ottenuta giocando male non è detto che sia migliore (in valore assoluto) di un’onorevole sconfitta, che potrebbe portarci a vincere di più, ma in seguito. Ogni atleta racconta di aver imparato molto più dalle sconfitte che dalle vittorie.
Questo accade anche nella vita.
Nell'esprimere le opinioni, abbiamo spesso a che fare con “avversari” di cui non conosciamo il valore, ma la nostra indole da atleta ci illude di “dover” vincere. Il risultato è che, siccome a nessuno piace perdere, nella maggioranza dei casi la partita venga abbandonata dando la colpa all’arbitro, o per manifesta inferiorità. In questo modo, le schermaglie di cui sono pieni i Social, diventano un pessimo spettacolo sia per chi legge che per chi scrive. Questo è il motivo per cui nei tornei “veri” ci sono le qualificazioni e le graduatorie.
Toni Sugaman non potrà mai trovarsi a giocare al centrale di Wimbledon con Nole Djokovic, per fortuna di entrambi …e nostra. Ma questo non significa certo che il buon Toni non possa giocare a tennis. Anzi, solo giocando potrà migliorare, magari però lo farà nel torneo parrocchiano di Anguillara, non a Wimbledon.
Invece nel mare di Facebook nessuno si preoccupa di giocare con avversari del proprio livello. Pensate che stia dicendo un’assurdità? Che tutti possano e debbano esprimere le proprie opinioni sempre e in qualsiasi modo?
Giustissimo, sono d’accordo al 1000/1000. Ma nel momento in cui sfidate qualcuno a “singolar tenzone” in una disputa dialettica di qualsivoglia natura, rilassatevi! Giocate meglio che potete, senza badare al risultato.
Vincere (avere ragione) non è sempre alla vostra portata. Non escludete mai che quello dall'altra parte della tastiera potrebbe essere il Djokovic di turno, pronto a farvi fare una figura barbina. Ma se giocherete al meglio, alla fine potreste andare verso la rete col sorriso e stringere la mano all'avversario, con la consapevolezza di aver offerto lo spettacolo migliore possibile, e magari avendo imparato qualcosa.
Chi è convinto di mettere in dubbio tutto, spesso si dimentica di mettere in dubbio sé stesso.


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La barca di domani...

17/12/2020

È innegabile che ognuno di noi possa (e debba) considerare la situazione attuale come può, riferendosi alla propria vita ed alle conseguenze che questo virus sta provocando intorno a sé. Tuttavia la politica DEVE, per sua stessa prerogativa, vedere la situazione dall'alto, sganciandosi dalle problematiche del singolo per poter pianificare un futuro per tutti. Ho l’onesta intellettuale di ammettere che non conosco ogni aspetto del problema: non possiedo né una visione d’insieme, né gli strumenti per determinare possibili soluzioni. Quello che mi innervosisce però, è che nemmeno la politica sembra avere gli strumenti giusti, e questo rende ogni sua scelta discutibile.
Questo deve fare arrabbiare. Non che la politica stia sbagliando, ma che non possa in alcun modo fare bene. La situazione era “nuova” ed eccezionale e questa è stata un’attenuante, ma non può essere la scusa valida per sempre. Invece, anche ora, qualsiasi scelta fatta dalla politica sembra creare solo danni perché manca la fiducia. I cittadini non si fidano più della politica, e non è colpa dei cittadini. Di conseguenza ogni scelta politica che vada a ledere le singole libertà non viene percepita come sacrificio comune, ma come imposizione di un regime che scarica sui cittadini le proprie inefficienze. Così ognuno pensa per sé. Questo deve far arrabbiare. Invece di cercare di essere quelli che hanno la sorte migliore, dovremmo batterci perché la sorte sia la migliore per tutti. Ma la democrazia (questa democrazia) in cui non si percepisce rappresentanza vera, è fallimentare quando si va in guerra. Nonostante io non ami il parallelismo, ce lo ripetono di continuo: siamo in guerra! Ma le guerre si vincono con un esercito con ha una struttura gerarchica che non ammette repliche. Immaginate se in guerra ci fosse qualche caporale che si mette a discutere gli ordini del capitano, che a sua volta contesta il colonnello, per poi arrivare fino al generale di corpo d’armata. Tuttavia il nostro Comandante dovrebbe godere di tutta la nostra “fedeltà”, la nostra fiducia. Ma non esiste proprio. Il problema è proprio qui: la politica non ha più la nostra fiducia. E abbiamo tutte le ragioni del mondo! Nonostante tutto ci viene chiesto di fare fronte comune per combattere l’invasore! Non funziona così! L’esercito, se lo vuoi, va preparato adeguatamente per essere SEMPRE pronto alla battaglia: devi istruirlo, dargli i mezzi, e creare spirito di corpo. Devi avere costruito un ideale da difendere. Invece è stato tutto delegato al PIL, unico baluardo su cui profondere ogni sforzo. Dimenticando tutto il resto.
L’economia potrà riempire i portafogli, ma né moltiplica l’intelligenza, né riempie i cuori.
Un esercito, anche armato fino ai denti, che però non crede nell'esito della guerra, sarà sempre un esercito di disertori.
Questa è la situazione, siamo in una barca alla deriva. L’unica preoccupazione degli ultimi 30 anni è stata cercare di non far affondare questa barca tappando le falle usando qualsiasi cosa fosse disponibile al momento, ubriacando l’equipaggio perché non vedesse gli scogli vicini, ma adesso gli scogli sono troppo vicini, maledettamente vicini. Dovremmo essere uniti, correre tutti alle manovre e remare insieme per allontanarci del pericolo, invece ognuno pensa a sé stesso. Alcuni preferiscono gettarsi in mare sfidando la corrente, altri sbraitano contro tutto e tutti per la frustrazione, e anche quelli che vogliono remare sono disorganizzati, facendo girare su sé stessa una barca oramai condannata, piena di ufficiali che pensano solo a come rimanere al comando.
Abbiamo (in occidente) concepito questo modello come il migliore possibile, ma è sostenibile solo con una crescita perenne del PIL, che però non può durare in eterno. Però la politica (e quindi noi stessi) si disinteressa dell’anno prossimo (se non sarà più in carica), figuriamoci del prossimo trentennio.
Quindi dovremo necessariamente naufragare per poter ricominciare. E anche così, poi avremmo la lungimiranza di costruire una barca migliore? E un equipaggio migliore? E useremo nuovi materiali? O saremo così miopi da cercare di risistemare un relitto con i pezzi che ci restituirà il mare? Ma soprattutto: siamo certi di dover solcare lo stesso mare? Questa è la domanda che dovrebbe farsi la politica: non il come, ma il perché. Oramai diamo talmente per assodato che questa sia l’unica realtà possibile, che non ci viene neppure in mente di metterla in discussione. Ci sono prove schiaccianti di questa immobilità intellettuale. Io spero che la spiaggia in cui ci ritroveremo naufraghi sia l’occasione per ripensare a ciò che ci rende grandi come genere umano: per la capacità di generare valore, piuttosto che per la volontà di deciderne il prezzo.

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150 Euro di ipocrisia.

11/12/2020

Avrete già letto più di qualche post o vignetta che ridicolizza questo comportamento tutto italico. Ma desidero sottolineare alcuni aspetti. Non sono mai stato un grande sostenitore dell’App Immuni, non tanto per la funzione in sé (sacrosanta), ma per le modalità con cui si sarebbero dovute svolgere le procedure seguenti. In particolare mi irritava l’idea alla base: “se sei (anche solo lontanamente) stato esposto al rischio contagio, chiuditi in casa, poi vedremo se, e cosa fare in caso ti ammalassi”. Tipicamente italiano, scaricare sul cittadino le inefficienze dello Stato. Avrebbe dovuto essere “Se sei stato esposto a rischio, ti facciamo un tampone entro 24 ore e accertiamo la tua negatività”. Fantascienza.
Ma il problema invece, sin da subito, ancora prima che fosse possibile scaricarla, era la PRIVACY. Ci vogliono tracciare! Vogliono sapere tutto di noi. Orrore!
Peccato che l’App Immuni sia da sempre anonima, non usi GPS, e i dati siano inutilizzabili da terze parte, ma l’ombra orwelliana del Grande fratello impiccione è diventata la scusa più usata per dichiararne la morte prematura ed inesorabile. Poi però, con tutt'altri fini arriva lo sconto di 150 euro di cash-back per cui devi:
• registrarti sull’ app IO dei servizi pubblici accedendo tramite l’identità digitale SPID (o con CIE)
• inserire il tuo codice fiscale,
• inserire le informazioni relative alle carte di pagamento che vuoi collegare
• dichiarare l’ Iban del conto corrente su cui ricevere il rimborso,
• e lasciarti tracciare ogni acquisto.
Ed improvvisamente non c’è più nulla di cui vergognarsi, o da nascondere. Ridicoli.
Non entro nel merito dell’efficacia del provvedimento per l’emersione del “nero”, che reputo ridicola (visto che il vantaggio non regge il paragone con il risparmio del 22 % sull’intero importo senza emissione della fattura, e non su un tetto di 15 euro a transazione). Ma rimane l’ipocrisia della tanto blasonata privacy.
Ricordate la massima “se è gratis il prodotto sei tu”? Se non solo è gratis, ma vi danno anche 150 euro, il prodotto cosa sarà? Sveglia!
Da un lato blocchi un paese, dall'altro sventoli “marchette per le allodole” per far ripartire i consumi. Perché parliamoci chiaro: l’unico intento vero della lotteria del cash-back è quello di farvi spendere. L’Italia sta accumulando nei conti correnti come mai prima (4200 miliardi), e questo non è bene per un’economia basata sul debito. Per rimettere in moto i consumi non sarebbe stato più opportuno fare un patentino digitale che dava accesso alla libera circolazione dei cittadini e le loro attività previo tampone negativo ogni settimana? La tecnologia c’è. Ma la burocrazia per crearlo sarebbe stata infinita.
Infatti, raccontata in breve, l’Italia funziona così: se c’è bisogno di innovare, si crea un ministero per l’innovazione. Quindi un ministro crea una commissione che decide cosa innovare. Poi vengono fatti dei bandi pubblici con iter burocratici che non essendo ancora innovati, funzionano come prima e favoriranno tutti quelli che non desiderano affatto innovare (perché non si aggiudicherebbero più gli appalti). Quindi si sprecano un sacco di soldi e tempo, col risultato di creare il nuovo “insuccesso politico” che servirà a vincere le elezioni dal prossimo governo innovatore. E così via.
Ma tanto avremo 150 euro, a patto di svuotare i nostri conti correnti.
Il crash dell’app Io per accedere al cash-back con l’immane numero di accessi è l’emblema di quest’Italia che si solleva in massa per la propria libertà… di essere presa in giro.

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Amazoniamoci! 

25/11/2020

Francamente faccio fatica a comprendere il pensiero schizofrenico. Sono altresì molto propenso al pensiero trasversale, ma totalmente disorientato dall'assenza di logica, perché non ammette alcuna replica.
Questa premessa è per scoraggiare chiunque pensi di avere un'opinione senza possedere il principio cardine della razionalità che ci arriva direttamente da Platone:
In principio di non contraddizione.
Sulla base di questo principio chiedo cortesemente delle illuminate risposte riguardo ad un problema che è diventato particolarmente chiacchierato (non ho detto discusso, proprio per non dare valore di opinione a frasi da bar che mancano completamente del principio di cui sopra)
Quesito:
“In una società che premia l'efficienza come unico valore vincente, in cui l'offerta migliore al prezzo più basso è l'obiettivo primario di ogni politica (anche sociale), ed Amazon rappresenta proprio il risultato finale di questo processo, ci si deve scagliare contro chi ha vinto il mercato o contro chi ha dettato le regole che lo hanno reso possibile?”
Se ci fosse una gara in cui ai partecipanti venisse lasciata libera scelta di correre con qualsiasi tipo di scarpa, ma un concorrente si comprasse tutte le scarpe costringendo gli altri a correre scalzi e perdere la gara, di chi sarebbe la colpa?
Di chi ha venduto le scarpe? di chi le ha comprate? o delle scarpe?
Ci sono decine di teorie sulle dinamiche del libero mercato e sui suoi benefici. Io stesso ritengo che questo liberismo abbia prodotto grandi benefici e vantaggi (per noi in occidente). Ma ora dobbiamo affrontare la realtà.
Forse è il caso di cambiare visione.
Magari anteponendo la qualità di vita al costo della stessa. Ma per fare questo è necessario un cambio totale di attitudine. La ricerca dell'efficienza non può avere alcun rivale perché è il principio fondante della tecnica che di fatto governa il nostro progresso. È un paradigma da cui è impossibile sganciarsi, ma qualcosa si può fare su un altro fronte: la felicità.
Credo che le persone si stiano allontanando così tanto dalla felicità perché viene considerata solo come appagamento in relazione agli utili che può produrre, ma non si educa ad essere felici.
Quante volte avete sentito chiedere a qualcuno, con sincero interesse: sei felice?
Molto più facile sentire: sei contento? Sempre dopo aver fatto qualcosa. Non è la stessa cosa, la contentezza è sempre motivata, si vive come riconoscimento al raggiungimento di un traguardo. Una medaglia. A nessuno interessa che tu sia felice senza fare qualcosa, perché altrimenti quella cosa potresti smettere di farla. La tua felicità devi meritartela.
La felicità invece è una predisposizione che prescinde dal luogo di arrivo ma è legata a come affronti il viaggio stesso.
Così, tornando al quesito iniziale, se invece di essere spinti solo dal raggiungimento del massimo risultato con il minimo sforzo, avessimo come parametro anche la felicità che ci procura una scelta, probabilmente potremmo decidere che tornare a veder crescere i nostri figli vale più che farli crescere. Che il sorriso di una commessa vale almeno quanto la sua capacità di piegare un maglione. Che il piacere di acquistare in un negozio in centro dopo una passeggiata e un gelato, vale molto più del semplice appagamento ottenuto dal possesso dell'oggetto acquistato. La felicità che ci procura il senso di appartenenza e coesione del tessuto sociale impedirebbe di vedere il proprio vicino di negozio solo come un concorrente da battere ad ogni costo, perché poi potrebbe arrivare Amazon che fa chiudere anche il tuo di negozio con la stessa logica, che in questo caso però ritieni inaccettabile. E siamo alla schizofrenia di cui parlavo all’inizio.
Il problema è che se io non sono recettivo alla felicità perché non so neppure valutarla o riconoscerla, allora acquistare su Amazon diventa la soluzione più "efficiente", perché questo è l’unico parametro per me quantificabile.
Lo ripeto fino alla noia, i sentimenti si imparano, e la felicità (non l'appagamento) è un sentimento che non insegna più nessuno perché non produce e non si produce col PIL.
E tu sei felice?
Se la risposta è no, fatti un regalo (ma non su Amazon): comincia col non dare la colpa agli altri.
Buon Natale.


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L’amore e l’assenza

18/11/2020

Era la fine degli anni 70 quando alla radio si cercava disperatamente la colonna sonora di Grease, o Figli delle stelle di Alan Sorrenti, passando per Tu di Umberto Tozzi (perché dabadan , dabadan non ha risparmiato nessuno!), ruotando in continuazione quella manopola plasticosa non appena i Disc jockey (all’epoca non si chiamava DJ) ci parlava sopra. Le play list all’epoca si facevano così: restando ore incollati alla radio aspettando di registrare la traccia giusta, senza interruzioni, nella mitica audio cassetta Maxell C60.
In quegli anni e con quella colonna sonora io andavo alle medie, ed ho sperimentato per la prima volta le pene dell’amore.
Lei si chiamava Erika P., in realtà mi piacevano anche altre ragazze, ricordo con tenerezza Roberta M. e sua cugina, (o forse è un falso positivo). Ma Erika aveva rubato il mio cuore. A quell’età non sai nulla della vita, figuriamoci dell’amore. So solo che ero pazzo di lei. Mi ricordo il cuore che sembrava uscirmi dal petto ogni volta che la vedevo. Un giorno in particolare restò impresso indelebilmente nella mia memoria, quando, invitata assieme agli altri amichetti alla mia festina di carnevale, Erika si presentò vestita da egiziana, con una lunga tunica bianca merlata d’oro. Aveva un nastro nella fronte e gli occhi truccati, proprio come Cleopatra. Ancora oggi, a distanza di 40 anni, non so se fosse davvero lei a muoversi al rallentatore, o se fossi io a dilatare il tempo quando la vidi. Quegli occhi già bellissimi, esaltati ulteriormente dal trucco restarono nel mio immaginario per anni. Proprio come accade sempre a quell’età, il mio desiderio di rendermi interessante mieteva una figuraccia dopo l’altra. Ancora oggi credo di essere sempre stato trasparente per lei, se non addirittura uno scemotto, ma per la prima volta nella mia vita sperimentai il desiderio. Non intendo solo agli ormoni impazziti di cui siamo stati vittime più o meno tutti, ma mi riferisco al sommo desiderio: la mancanza. La sua mancanza.
L’amore è mancanza. È desiderio per ciò che non si ha. Quando hai qualcosa, smetti di desiderarla, al massimo arrivi a goderne, ne approfitti; ma così si passa dal piano irrazionale al quello dell’esperienza. L’Amore invece non può mai essere razionalizzato. Puoi cercare di sublimarlo in qualche modo: l’arte risponde proprio a questo impulso. Ma l’Amore resta lì, inaccessibile come ogni sua cura.
Proprio il ricordo di questo amore inaccessibile, e della sensazione di mancanza che mi provocava, mi spinge a scrivere una cosa che non piacerà a molti.
Stiamo perdendo il desiderio, perché siamo abituati ad avere tutto. Proprio l’inesperienza della mancanza è la prima causa dell’incapacità di amare. Il primo killer è la tecnologia che soddisfa ogni desiderio.
Intendiamoci, io adoro la tecnologia, ne sono una vittima (consapevole) come tutti, ma almeno, prima, ho sperimentato quella mancanza. Prima dell’arrivo perentorio di questo mondo servo-assistito, ho provato quel desiderio irraggiungibile. Ci ho convissuto, l’ho metabolizzato e sono sopravvissuto ad esso. Da allora so che posso riuscirci.
Invece questo occidente ci sta viziando un po’ troppo. Ora è tutto accessibile, sempre, e da subito. Anche la sfera sessuale che ai miei tempi passava attraverso le foto sbirciate di nascosto delle modelle in lingerie del catalogo Postalmarket, è stata sdoganata completamente. Non esiste più il proibito.
Non sono un bacchettone che rimpiange i “bei vecchi tempi”, anzi sono consapevole delle enormi potenzialità del presente e immagino con meraviglia il futuro, ma sono solo preoccupato perché non stiamo ponendo nell’educazione la stessa attenzione che poniamo nella conoscenza. Fateci caso: nessun bambino d'oggi che io abbia avuto la fortuna di vedere, sperimenta più la noia. Invece l’esperienza della noia è necessaria perché ci rende consapevoli, e ci insegna che noi bastiamo a noi stessi. È formativa. Ci induce a creare uno scopo, ancor prima che a sceglierne uno preconfezionato.
Come un filosofo che ama la verità perché sa di non possederla, e ne sente la mancanza, io amo l’umanità che fatico a ritrovare.

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L’angoscia e la paura.

10/11/2020

Ai più sembrano 2 facce della stessa medaglia. No!
L’angoscia non ha un nemico, è uno stato d’animo dettato proprio dall'incapacità di determinare il “cosa”.
La paura il nemico ce l’ha, e ci si può almeno scagliare contro. Il mostro si vede e si riconosce, si può odiarlo, combatterlo.
E quindi è molto umano cercare di tramutare le angosce in paure. Ecco spiegato perché l’angoscia di un virus da cui non sappiamo come difenderci diventa odio. Abbiamo bisogno di dare la colpa a qualcosa o qualcuno. Non sono d’accordo con le limitazioni che ci stanno imponendo, ma sono certo che l’odio per il governo che chiude tutto, sarebbe lo stesso anche per un governo che lascia tutto aperto.
La nostra necessità di avere un colpevole è figlia stessa della nostra cultura, persino al Male abbiamo dovuto dare un volto.
Quindi, per il bene nostro, e degli altri, sarebbe molto meglio se prima di tramutare tutta la nostra angoscia in odio, fossimo in grado di capirla per poi imparare a conviverci un po’.
La prospettiva cambia. Il desiderio è assenza. Infatti non si può desiderare ciò che si ha già. Ma se la conquista non passa attraverso il desiderio, non si riesce nemmeno a godere di quella conquista. Mi riferisco al desiderio di ogni tipo, non certamente alla sessualità (quella è un impulso). Siamo troppo abituati a tutto, non abbiamo più nulla da desiderare, al punto che tutto è diventato un diritto. Credo che la privazione di alcune nostre “ovvie” libertà ci dovrebbe portare a desiderarle prima ancora che pretenderle. Per capirne il valore e tornare a goderne pienamente. Mentre tutti combattono con l’odio io combatto contro la mia paura di perdere il desiderio di convivere.
Io rivoglio gli abbracci.

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Sono partito, e lo rifarei. (storia vera)

03/11/2020

Io viaggio, tanto. Anzi lo facevo.
Sono mesi, tanti, che non posso più farlo.
Ma a fine ottobre un cliente in Polonia mi ha supplicato di andare a fare un’assistenza senza la quale non avrebbe potuto continuare lavorare.
Naturalmente non ho preso la cosa con leggerezza, ma considerato che la destinazione non era ritenuta particolarmente pericolosa, e non vi erano limitazioni di sorta, ho deciso di alleggerire l’animo del mio cliente, appesantendo un po’ il mio.
La prima sensazione arrivato in aeroporto è stata di smarrimento: io che passavo le giornate maledicendo per le code dei check-in, o le lounges troppo affollate, improvvisamente mi sono trovato a rimpiangere tutto quel mondo intorno.
Ecco com’era. Non c’era condivisione.
Anzi. Proprio il contrario. Condividere ora è male.
Infatti improvvisamente anche il mio naturale impulso di condividere col mio cliente i suoi problemi veniva messo in dubbio. Avrò fatto bene a mettere a rischio me stesso, e tutti i miei “congiunti” con me? Perché sono stato così superficiale?
La risposta non è semplice e ci ho messo un po’ per elaborarla ma è frutto di tutto quello che mi è accaduto.
Nonostante il check-in fatto naturalmente on-line, ho dovuto recarmi al banco per imbarcare la valigia e lì subito il primo fulmine. La signora mi guarda un po’ storto, probabilmente anche lei comincia a pensare di non voler condividere la sua vita con me, e mi dice che ha l’obbligo di informarmi che a Danzica “potrei essere sottoposto a quarantena”
Terrore!
Annullo tutto? Com’ è possibile? Avevo letto ogni fonte ufficiale, dal Ministero degli Esteri, al consolato italiano e tutti riportavano che addirittura non era neanche necessario l'esito del tampone, né nessun’altra certificazione. Lo faccio presente alla signora che nel frattempo comincia a considerarmi un po’ troppo invadente.
Così mi redarguisce sottolineando che la sua è una posizione altrettanto ufficiale.
I nostri sguardi rimangono così. Fermi.
Dopo un secondo interminabile mi chiede se intendessi ancora partire.
Sembrava una mamma che dice al figlio: “Non dire che non ti avevo avvisato” con quella sicurezza che solo le mamme hanno, quando sanno che farai la cazzata!
A quel punto, la sua poca voglia di condividere era diventata reciproca, e ho risposto “sì”
Parto, cazzo! Alla faccia tua, e della iella che mi vuoi portare.
Poi, incamminandomi verso il controllo all’ ingresso del gate ho realizzato la mia prima sconfitta: avevo lasciato che il buio altrui oscurasse la mia luce.
Al banco del check-in adoro essere gentile ed educato, ma lo faccio con sincero piacere. Cerco di restituire un po’ di gratitudine a chi molte volte ha di fronte persone poco inclini ad esserlo. Non nego che spesso questi modi mi abbiano fatto ottenere posti privilegiati a bordo, senza che lo chiedessi. Ed invece per la prima volta dopo molto tempo, mi sentivo derubato.
Ho cercato di recuperare la mia positività e per fortuna il personale ai controlli ha restituito ogni mio sorriso. Sono andato a fare colazione con una ritrovata speranza.
Forse non va così male.
Ho continuato a pensare positivo, dicendomi che stavo facendo la cosa giusta.
Però durante il viaggio, ad ogni bus che prendevo (ho fatto scalo a Monaco) la gente si affollava accanto a me e mi sentivo a disagio ad essere a disagio. Ho qualcosa che non va. Di sicuro.
Dentro di me continuava a crescere la convinzione che la strega del check-in avesse ragione: avevo fatto una cazzata.
Fino a quando non sono uscito dal terminal, e ho trovato il mio cliente così felice di vedermi che avrebbe voluto baciarmi, altro che stringermi la mano. Naturalmente non ci siamo toccati, ma in quel preciso istante ho capito perché avevo affrontato tutto.
Perché l’unica cosa che conta non è sopravvivere,
ma convivere.


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La cura che uccide

18/10/2020

Nella malaugurata ipotesi di una cancrena ad un piede, il punto in cui fare l’amputazione è cruciale.
Se si taglia troppo poco, si rischia di non scongiurare l’infezione e si espone il paziente al pericolo di vita.
Se si taglia troppo, potrebbe essere così invalidante da rendere molto difficile, o impossibile la riabilitazione.
Mi sembra che l’obiettivo di sconfiggere il virus, abbia preso il posto all'obbiettivo di preservare la “vita”.
So che sembrano la stessa cosa, ma restare vivi non è vivere. C’è un limite oltre il quale il rischio deve essere un’assunzione personale.
Anche mettersi ogni giorno in macchina prevede dei rischi (1.35 milioni di morti nel mondo ), tanto più alti, quanto meno prudenti si è alla guida. L’obbligo di avere la patente per guidare non impedisce comportamenti scellerati. Puoi essere coinvolto in un incidente (anche per colpa altrui) provocando magari un tamponamento a catena con molti feriti. Ma questo non ci impedisce di muoverci.
I morti per Covid-19 (1.1 milioni) sono poco meno di quelli degli incidenti stradali.
Non sono così poco lucido da non considerare le diversità ed i pericoli dati dal possibile incremento geometrico del virus, ma la battaglia non si dovrebbe vincere con gli obblighi ma con l’informazione.
Ecco il problema caro Stato!
HAI VOLUTAMENTE prodotto generazioni di “non pensanti” che nel momento in cui DEVONO trovare le informazioni, e trovano di tutto in rete (prima le gestivi facilmente con un paio di telegiornali al giorno), non hanno strumenti culturali per capire e pensare.
Hai lasciato che l’Italia diventasse l’ultimo paese in Europa per capacità di comprensione di un testo scritto. (dati OCSE)
Combattere l’analfabetismo non significa insegnare a leggere, ma insegnare a CAPIRE.
Insegnare a pensare.
E ora eccoti alla resa dei conti.
Taglia via la cancrena!
Potrai anche amputare alcune nostre libertà con la promessa di salvarci la vita, ma attento a come decidi di tagliare, perché morire dissanguati non è meglio che morire di cancrena.


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Il peccato è morto,
ed è un peccato.

06/10/2020

Se dovessimo fare un breve (anche un po’ superficiale) excursus del pensiero nell’ occidente, potremmo riassumerlo così:
in epoca greca l’uomo, come entità di natura si pone come osservatore e ne estrapola le leggi immutabili che “nessun uomo e nessun Dio fece”;
col cristianesimo l’uomo viene posto al vertice del “creato” e si passa dalla contemplazione alla categoria del dominio sulla Natura.
Ma ancora più interessanti sono le conseguenze che queste epoche hanno prodotto nella “psicologia del peccato”.
I greci avevano già sdoganato tutte le miserie umane inserendole nei miti o leggende, e da osservatori intelligenti quali erano, non avevano nessun bisogno neppure di “tollerare” le diversità perché ritenute anch'esse espressioni della Natura. Il “peccato” tuttavia esisteva, anche se non in senso cristiano del termine, e consisteva nel porre l’interesse dell’individuo prima della città. L’uomo, per i greci, aveva senso solo se “in relazione” all'altro. E chi pensa di poter vivere solo “o è bestia, o è Dio.”
In seguito il cristianesimo ha “vinto” sulla grecità perché ha regalato all'uomo la vita eterna, stravolgendone definitivamente la visione ciclica in cui la Natura pretende la morte per generare la vita.
Ma una fra le più grandi conseguenze del cristianesimo è stata l’ideazione del peccato. Da esso è stata fondata la stessa struttura della giurisprudenza moderna. La dominanza dell’intenzione sulla fattualità ha cambiato definitivamente i codici di giudizio, tanto che un omicidio (uguale nel risultato fattuale) può essere giudicato come colposo, preterintenzionale, premeditato. Non si giudica più il fatto in sé ma l’intenzione. Poiché l’intenzione non è oggettivamente sindacabile (interioritate hominis) ecco che per limitare al massimo la conflittualità sociale, fine ultimo di ogni regola civile, diventa rilevante anche il timore di Dio a cui nessuno può sottrarsi (a differenza della legge degli uomini). Si passa dalla visione greca in cui l’obiettivo era la salvezza della città, intesa come convivenza secondo le leggi di natura, alla salvezza dell’anima (propria).
Il cristianesimo infatti definisce incontrovertibilmente la centralità dell’uomo e la sua salvezza (della propria anima), rispetto alla società. È stato un cambiamento epocale che ha prodotto come conseguenza il senso di colpa, prima che la colpa. Così si è passati dai miti greci che insegnavano le regole e le miserie umane ai precetti religiosi. I comandamenti. La religione si è sostituita perfettamente e con i suoi insegnamenti ha gettato le basi di quella che è rimasta per millenni la nostra coscienza condivisa. Ci ha dato quella che consideriamo la nostra morale. Ma adesso? Fa ancora paura il giudizio di Dio? Ci lusinga ancora la promessa della vita eterna? No, non più. Non alla maggioranza, almeno.
Ecco il significato dell’espressione di Nietzsche: “Dio è morto”. È morto perché non fa più storia. Se levo la parola “Dio” dal medio evo, dove l’arte è arte sacra, la letteratura parla di inferno e paradiso, posso ancora capire la sua storia? No.
Ma se levo la parola “Dio” oggi? Riconosco ancora l’epoca? Certo, ma provate invece a togliere la parola denaro, o tecnica.
Questo mutamento ha portato alla sostituzione del senso di colpa col senso di inadeguatezza. La nostra identità sociale è sempre subordinata all'appartenenza, ma poiché quella religiosa ha lasciato posto a quella sociale, se non siamo adeguatamente “collocati” non troviamo scopo alla nostra esistenza, e poiché il futuro non è più una promessa (vita eterna) non retro-agisce come motivazione, lasciandoci vittime di quello che Nietzsche intuì cent’anni fa e chiamò nichilismo.
Ora la nostra più impellente necessità è riuscire ad essere “funzionari di apparato”. Un apparato talmente asservito tecnologicamente che invece di averci aumentato la libertà ci ha reso vittime e schiavi della stessa tecnica, talmente veloce da non consentire all'uomo di prevederne le conseguenze.
Sono conscio del fatto che non ho tracciato un bel quadretto, e anche del fatto che non ho prospettato alcuna soluzione.
Così, se proprio dovessi spingermi a fare delle previsioni, seguendo la mia predilezione per la visione greca del mondo, direi che dovremo abdicare dal nostro ruolo dominante e ricominciare a considerarci “dentro” la natura, così potremmo inserire anche tutto il nostro processo auto-distruttivo come parte integrante della stessa. Non è da escludere, infatti, che la Natura abbia necessità di ripetere il ciclo della generazione umana fino a quando non ne uscirà una specie degna della propria permanenza. Non dimentichiamoci che rispetto alla vita dell’universo l’uomo avrebbe potuto nascere ed arrivare fino a qui 6500 volte, consecutivamente.
A parziale consolazione ci vengono incontro le ultime teorie della fisica quantistica che ipotizzano un mondo probabilistico dove questa non è che una delle possibili realtà. E dove la realtà stessa è definita solo come interazione “fra le cose”, dove l’uno non esiste in assenza dell’altro (!).
Greci, gente seria!
Nota. Molte di queste considerazioni sono frutto di alcune conferenze del prof. Galimberti a cui ho avuto il piacere di assistere.
I riferimenti alla fisica quantistica sono liberamente estratti dalla lettura dei libri di Carlo Rovelli: Helgoland (ed. Adelphi); La realtà non è come ci appare (ed. Cortina Raffaello); Sette brevi lezioni di fisica (ed. Adelphi).


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SENTIMENTICIDIO!

15/09/2020

Basta , basta, basta. Possibile che al manifestarsi di un fallimento sociale, come un assassinio l’unica cosa che viene mente sia una nuova legge? Contro l’omofobia, contro il bullismo, e aggiungiamo l’aggravante di questo e di quello, e poi? Ma lo vogliamo capire che il percorso è esattamente inverso?
Se hai coscienza del male puoi decodificare il reato, non il contrario. A me non verrebbe mai in mente di uccidere, semplicemente perché è sbagliato, non perché è illegale. Il deterrente della punizione deve essere un cuscinetto di sicurezza, un’assicurazione sociale contro i fallimenti dell’educazione, ma non sostituirsi ad essa.
I sentimenti si imparano! Lo ripeterò fino alla nausea, come il prof. Galimberti.
E smettiamola con le categorie!!!
Abbiamo oramai bisogno di categorizzare tutto, oltre ogni reale necessità, solo per comodità.
Sia chiaro, le categorie sono la base stessa del nostro pensiero e costituiscono i mattoni essenziali della matematica.
Abbiamo bisogno delle categorie.
Ma cominciamo ad utilizzarle sempre, perché sono nostre amiche, ci rendono facile la vita.
Con le categorie è molto più semplice e veloce leggere la realtà e descriverla.
Così non basta dire omicidio, ma femminicidio, fra un po’ nascerà la categoria immigraticidio, omosessualicidio. Attenzione perché nel nostro cervello, queste divisioni provocano delle “cose”. Più rendiamo “speciale” una categoria, più ci allontaniamo dalla radice.
Non è più una persona (come te) che uccide un’altra persona (come te), ma una particolare categoria di persona che uccide un’altra categoria di persona. Con questa piccola differenza il nostro cervello ci esclude dalla responsabilità di essere quella persona. Così diventa istantaneamente un problema di altri e per altri.
Io ritengo che le risposte di pancia che ci ha regalato la politica in questi giorni siano emblema della totale incapacità di pensare con la testa e tantomeno di agire col cuore.
Come disse Gunther Anders (1902-1992).
"L'UMANITÀ CHE TRATTA IL MONDO COME UN MONDO DA BUTTAR VIA, TRATTA ANCHE SÉ STESSA COME UN'UMANITÀ DA BUTTAR VIA"


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La libertà è un abbaglio.

15/08/2020

Siamo liberi, veramente?
La libertà è un concetto talmente vasto e complesso che anche solo avvicinarsi ad esso è pericoloso.
Si tratta di merce così rara che è più utile spacciarne frammenti, piuttosto che sancirne l’improbabile (vorrei dire impossibile) esistenza.
Come ho già affermato più volte, la libertà non può mai essere considerata assoluta. Anche la tanto sbandierata “libertà di pensiero” si esplicita sempre rispetto a mappe cognitive e di sentimenti, che sono per loro natura delle vere e proprie briglie. Tutto è imbrigliato.
È come quando la mattina ci sentiamo liberi di vestirci come ci pare. È rassicurante sapere che è solo la nostra decisione a determinare come ci mostreremo al mondo. Però…
Ci sono parecchi però.
Innanzi tutto siamo liberi di scegliere il nostro look solamente fra quanto è disponibile nell’armadio.
E, come non bastasse, quello che abbiamo nell’armadio non dipende solo dalla nostra capacità/volontà di fare shopping, è strettamente legato alla nostra educazione, a dove siamo nati, a dove viviamo, al ceto di appartenenza, alla volontà di conformarci. Tutta una serie di briglie che inevitabilmente ristringeranno il nostro campo di scelte.
Ma dentro di noi appare comunque chiara la sensazione di avere totale controllo: di essere liberi di scegliere. Così alla fine, per la nostra felicità, non conta la libertà, ma la percezione che abbiamo della stessa. La libertà è un mito.
Siamo imbrigliati.
Non mi riferisco alle regole che abbiamo sottoscritto e con le quali definiamo civile la nostra convivenza. Mi riferisco a qualcosa di molto più subdolo. Si tratta di quello che i guru del marketing chiamano “bias cognitivi”.
Come sempre, tutto in natura ha un senso: quindi questo non è un problema di per sé, infatti rende immediata, una risposta ad uno stimolo, senza dispendio energetico o di tempo. Invece, come ho già scritto in un mio precedente articolo, ogni tesoro prevede che ci sia un dispendio di tempo per cercarlo, e di energia per dissotterrarlo.
La libertà, in fondo è proprio questo: un tesoro col quale puoi
scegliere "come" non essere libero.
Mi piace ricordare una bellissima domenica mattina, quando mia mamma, incurante dell’allegria con cui avevo passato l’intero sabato notte, spalancava le imposte inondando la stanza di una luce così forte da procurarmi quasi un dolore fisico agli occhi, e come un vampiro sorpreso dal giorno, mi coprivo il volto cercando di non morire… di sonno. Ecco! Quell’impulso, quella risposta istintiva, dopo qualche minuto (qualche ora se ero fortunato) avrebbe lasciato il posto alla consapevolezza (Madonna come odio questa parola! Ma non ne trovo altre: “consapevolezza” è forse il sostantivo più abusato dell’ultimo decennio). Mi riferisco in particolare ad un cambio di coscienza. Quando passi dal sogno alla realtà! Quindi dopo il primo momento di negazione del sole, arriva l’accettazione, e con essa, speriamo, la voglia di scoprire cosa porterà questo nuovo giorno. Così, scosti piano le mani dalla faccia e lasci che la verità si palesi ai tuoi occhi. E sei di nuovo libero, almeno un po'.
Questo è quello che mi auguro: di avere sempre la forza di vincere l’impulso istintivo di coprirmi il volto, aprire gli occhi al nuovo giorno, e scoprire che anche oggi vorrò vestirmi con qualcosa di diverso. Perché tutto quello che ho in armadio parla di me, ma io ho ancora molto altro da dire.


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La luce alla fine del tunnel.

13/07/2020

Non vedo luce in fondo al tunnel.
E non mi riferisco alla crisi economica o politica. Mi preoccupa l'uomo.
A dire il vero ho anche qualche difficoltà a definire l'uomo in modo univoco. Non riesco a trovare un denominatore comune. O almeno io credo di essere diverso. Perché?
Non si tratta del mio pensiero in sé, ma dell'attività stessa del pensare.
Qualche anno fa una celebre campagna pubblicitaria di Apple esortava a pensare in modo diverso: think different, oggi al massimo ci si potrebbe accontentare di un: think something.
Sarà che io vivo di pensiero. Ne ho una necessità impellente. È così determinante per me, da non poter concepire la mia vita senza. Ma mi accorgo sempre più spesso di far parte di una ristretta cerchia di nostalgici.
Sembra proprio che l'attività del pensare sia stata relegata in un polveroso passato in cui ogni opinione necessitava di una riflessione critica ed una validazione faticosa, fatta di rigore logico.
Oggi non serve pensare, non ce n'è bisogno. Tuttalpiù, se sei fortunato, arrivi a scegliere fra opinioni preconfezionate pronte all'uso.
E questo accade proprio nel momento in cui la tecnologia rende assai più facile di quanto non fosse in passato la generazione del proprio pensiero.
Non comprendo come sia possibile passare delle ore con in mano un oggetto dalle potenzialità mai raggiunte prima, ed utilizzarlo quasi esclusivamente come fonte di dopamina per drogati.
Mi riferisco in particolare all'uso dei social.
Oramai è sempre più evidente (e scientificamente provato) che l'attività sulle varie piattaforme ha come scopo la ricompensa di dopamina scatenata da un like o una condivisione.
La necessità di refill dell’autostima prescinde completamente dal contenuto, al punto che più l'argomento è scontato e popolare, e meglio assolve al proprio compito di incubatore di like. Per la verità sono anche in pochi a prendersi la briga di scrivere a qualcosa, condividendo semplicemente qualche citazione altrui. Nella migliore delle ipotesi si plana morbidamente sull'ovvio, in altri casi si cavalca la rabbia, e il più delle volte vince semplicemente qualche tenero micetto.
Nulla di male, (io adoro i gatti) se non fosse che la ricerca della dose di dopamina giornaliera sta diventando l' utilità predominante, per uno strumento che in sé potrebbe essere davvero stupefacente (non ho scelto l'aggettivo a caso).
Mi sono accorto di questo durante il periodo di reclusione da Covid. Potendo dedicare più tempo alla scrittura e alla lettura ho voluto fare un piccolo esperimento su Facebook. È nato tutto per caso, parlando con un mio carissimo amico, grazie al quale i miei semi di inquietudine trovano terreno fertile, ma soprattutto grazie alla sua prodigiosa maestria nel potare i ragionamenti che da quel terreno germogliano. Con lui abbiamo più volte affrontato l'argomento dei contenuti nei vari post che si susseguono sul noto social network, e ci siamo dati una missione: provare a condurre gli utenti comuni su un livello di interazione più alto.
Presuntuosi. Chi crediamo di essere?
Vero. Molto vero. Ma era a fin di bene e non avremmo certo fatto peggio di altri.
Così ci siamo inseriti in alcune "discussioni" che abbiamo scoperto ben presto essere finte. Finte perché di fatto quasi nessuno scrive su FB per farsi, o ricevere un'opinione, ma per difendere la propria, che spesso è presa in prestito da altri. Insomma nessuno vuole il confronto ma solo una pacca sulla spalla.
È stato molto istruttivo. Ho imparato che per accettare una qualsiasi verità devi prima averne avuto esperienza. Esattamente come non si può spiegare l'amore a chi non è mai stato innamorato, così non si può avere nostalgia di ciò che non si è mai vissuto. Se non hai esperienza su come formulare un'opinione, ma sei sempre stato abituato a sceglierne una preconfezionata, non ne sentirai alcun bisogno.
Qui ho capito perché mi sento diverso. Non mi riferisco all'attività di esporre un pensiero, ma a quella ben più importante di saperlo creare.
È stato illuminante vedere come fosse impossibile avere delle risposte soddisfacenti quando chiedevo di argomentare adeguatamente la propria posizione. Si capiva facilmente che si trattava proprio di questo: non un'opinione ma una posizione, con una seduta comoda. Poco importa che sia tua. Da lì non ti schioderà più nessuno. Non hai bisogno di sapere perché ci stai comodo, è un dato di fatto. E ciò ti basta.
Ma come non può esistere la morte prima della vita, non può esserci verità senza il dubbio.
Se manca l'attitudine alla navigazione nelle acque agitate del pensiero critico, l'unica opzione è rimanere ancorati al primo ormeggio sicuro. Non si corrono rischi, ma non si va da nessuna parte. Sarebbe come non nascere mai, per la paura di dover morire.
Ecco ciò che vedo, un'infinità di zombie che credono di essere vivi solo per il fatto di non essere morti ma che in fondo non hanno mai avuto neanche la voglia o il coraggio di nascere.

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Anche se ci nuoti da anni, non è detto che sia il mare migliore.

01/07/2020

Ci sono cose che ci sembrano chiare solo quando le abbiamo vissute, anche se non avremmo mai immaginato di viverle.
È accaduto spesso in passato, e continua ad accadere.
La cosa più straordinaria è che ogni grande sconvolgimento segue sempre il medesimo schema. Si tratta del ciclo dell'esagerazione, hype cycle di Gartner ,per gli amanti dei tecnicismi. (nell’immagine qui a lato) .
Spiegato in breve consiste di 5 fasi.
Nella prima (innesco della tecnologia) appare la nuova idea, potenzialmente dirompente, cioè destinata a cambiare totalmente le consuetudini radicate, alla quale tutti i media danno ampio risalto, senza comprenderne quasi nulla, ma fa notizia. In questa fase diventa una chiacchiera da bar e divide generalmente i sostenitori dagli scettici senza che in realtà nessuno ne sappia veramente qualcosa, perché di fatto è ancora solo un'idea, non validata da alcuna soluzione reale.
La seconda fase (picco delle aspettative esagerate) scatena la fantasia a molti perché comincia spargersi la voce di qualcuno che cavalcando l'onda sta facendo soldi a palate, ma molti altri invece perderanno intere fortune, buttandovisi a capofitto o pensando di poter "creare lo standard" e diventarne i padroni indiscussi.
Poi si arriva alla fase 3 (fossa della disillusione) in cui molte aziende abbandonano l'idea perché non produce i risultati sperati, ma le poche che insistono per soddisfare la limitata richiesta, contribuiscono a perfezionarne la tecnologia.
Ora arriviamo alla fase più interessante:
La fase 4 (salita dell'illuminazione). In questo periodo l’innovazione comincia a prendere piede e molti (ma non tutti) cominciano a capirne le potenzialità reali, investendo risorse e potenziando l’offerta.
Infine la quinta fase (Altopiano della produttività) coincide con l’adozione di massa, in cui si stabiliscono gli standard e smette di essere una novità diventando di uso comune.
Ancora una volta sembra tutto così ovvio.
Già, infatti potremmo ripercorrere tutto il ciclo con le maggiori innovazioni degli ultimi anni. Qualche esempio?
Internet. Quando è diventata fruibile, negli anni novanta, tutti ne parlavano e sembrava bastasse avere una dot-com company (in realtà solo un sito on line) per moltiplicare i propri soldi. E diede origine ad una grossa bolla speculativa che esplose con drammatiche conseguenze per alcuni.
Ma, nonostante tutto, ora non è nemmeno pensabile un mondo senza connessione.
Il telefono cellulare subì le stesse sorti, con vittime illustri come Nokia, e Blackberry.
La TV via internet… stessa dinamica con il collasso di una catena gigantesca come Blockbuster.
È bene comprendere, tuttavia, che ogni innovazione si impone prepotentemente solo grazie ad un parametro discriminante: l’efficienza.
Efficienza intesa come rapporto fra investimenti e benefici così elevato da risultare dirompente. In inglese: DISRUPTIVE (termine coniato nel 1995 dal compianto professor Clayton Christensen, ed esprime un cambiamento non in termini di evoluzione, ma di rottura netta col passato).
Per comprenderne il concetto, non è stata l’invenzione dell’auto ad essere disruptive, ma la catena di montaggio di Ford, cha ha reso accessibile la sua model T a tutti (o quasi). Il quid non è riferito all’invenzione in sé, ma alla capacità di modificare sostanzialmente i comportamenti globali.
Allo stesso modo, non fu la lampadina a corrente continua di Edison ad essere disruptive, ma la corrente alternata di Tesla che ne ha reso possibile la diffusione.
In tutti i casi citati l’hype cycle di Gartner risulta sempre vero. Ora stiamo vivendo lo stesso ciclo con una nuova idea rivoluzionaria: il Bitcoin.
Ora posso rilassarmi perché so di aver perso l’80% dei lettori, che sanno già tutto sull’argomento (?), e quindi posso scrivere senza troppi filtri tutte le ragioni per le quali sono convinto che sarà una rivoluzione disruptive, al pari di Internet.
Ripercorriamo il grafico, con la storia della, per ora, incompresa cripto moneta.
Nasce grazie ad una sconvolgente idea di Satoshi Nakamoto (chiunque sia, o siano, nessuno lo sa) a seguito della crisi economica del 2008. Non si tratta, nella sua formulazione, di un modo per fare soldi, come viene comunemente pensato (compresi tutti gli esperti che hanno smesso di leggere un paragrafo fa). Anzi, si tratta di una visione che ha implicazioni sociali, filosofiche, ad anche morali. Ma nessuno degli esperti al bar vi parlerà di questo.
Era il 3 gennaio 2009 quando venne creato il primo “blocco” e prese vita il primo Bitcoin. Non è un caso che in questa prima “coniatura” sia stato volutamente impresso da Satoshi un messaggio pubblico in cui è riportatolo il titolo del Times dello stesso giorno: “The Times 03/Jan/2009 Chancellor on brink of second bailout for banks”, che faceva riferimento al salvataggio delle banche, voluto dal governo britannico. Si trattò di una sorta di denuncia pacifica contro il potere finanziario centralizzato, con una soluzione totalmente decentralizzata ed incorruttibile. Non vi annoierò coi dettagli tecnici, ma da allora il Bitcoin ha cambiato tutto, con delle ripercussioni troppo importanti per essere capito, e metabolizzato velocemente.
Scopriamone però la filosofia di base.
Senza voler ripercorrere tutta la storia della moneta, mi limito a ricordarne lo scopo: riserva di valore. In pratica ha lo scopo di rendere più agevole il baratto (aumentandone l’efficienza). Si stabilisce che un bene o un servizio abbia un valore, per ottenere il quale io devo corrispondere un bene od un servizio equivalenti. Ma vantare dei titoli da scambiare, al posto dei beni fisici, diventa assai più efficiente. Perché questo funzioni, è necessario tuttavia che il valore dei titoli venga mantenuto nel tempo (Riserva di valore). Se questo non accade siamo di fronte ad inflazione. Attenzione: i beni e i servizi hanno sempre lo stesso valore rapportati fra loro, ma con l’inflazione i miei titoli (moneta) non bastano più, nel tempo, per scambiarli in egual misura. La possibilità di “creare” moneta (titoli) senza mantenere la riserva di valore (come era con l’oro in origine) ha quindi una conseguenza molto importante: il lavoro svolto in precedenza perde di valore.
Si capisce bene che se fosse spiegata così, nessuno vedrebbe l’inflazione di buon occhio. In realtà, se usata in modo assennato, essa può generare ricchezza grazie al ciclo del credito. Ma deve essere gestita molto bene.
Per capire bene come funziona suggerisco la visione di questo documentario.
Tuttavia, è facile comprendere che se le leve finanziarie che operano in questo ciclo, sono manovrate da enti centralizzati (e quindi da uomini), anche volendo ipotizzare l’assoluta buona fede e integrità morale(?), si è comunque esposti a grossi errori di valutazione.
Alcuni di questi errori hanno generato le più catastrofiche crisi finanziarie dell’era moderna.
Et voilà!
Siamo giunti al colpo di genio: un sistema di scambio, o moneta, che non preveda alcun tipo di intermediario, senza bisogno della necessaria fiducia nei confronti di chi la emette (trustless) e senza possibilità di subire inflazione (nessuno può stampare bitcoin a piacimento).
Ma se non esiste giorno che la quotazione del bitcoin non subisca oscillazioni spaventose. Vero, ma rispetto alle valute tradizionali con cui viene scambiato, proprio come accade per l’oro. Ma proprio perché non ha ancora una massa critica sufficiente a mitigare gli scambi, si presta ad una massiccia speculazione, da parte di chi fa trading.
Per fare un esempio, se gettate un sasso in una pozzanghera, il “moto ondoso” sarà evidentissimo, arrivando ad increspare tutta la superficie. Se gettate lo stesso sasso in mare, non se ne accorgerà nessuno. Poiché i sassi ora sono molto più significativi della grandezza della pozzanghera, il risultato è una superficie in tempesta! Ma è una pozzanghera che aspira a diventare un mare, libero.
In quello in cui siamo stati abituati a nuotare fino ad oggi, la calma piatta è mantenuta artificialmente usando un gigantesco MOSE, il cui mancato funzionamento, come per quello vero, produce di tanto in tanto devastanti inondazioni, e continua manutenzione.
Ma la nostra esperienza stabilisce che sia il MOSE da aggiustare, perché è “normale” gestire le maree. A nessuno, o a pochi per ora, viene in mente di tuffarsi altrove!
Questo è il motivo per cui non viene capito Bitcoin, come è successo inizialmente per internet. Ha già passato la fase 1, e la 2 con la bolla del 2017 in cui arrivò a toccare i 20.000 dollari per poi crollare nella fase 3, l’anno successivo, a 6.000 dollari. Ora, secondo il grafico, siamo nella fase 4 con tutto ciò che potrebbe comportare. Vedremo.
Si tratta, in conclusione, di una rivoluzione totalmente decentralizzata, in cui il potere di scambio non potrà mai essere limitato o condizionato da nessuno. Naturalmente chi gestisce il MOSE non è molto contento di essere estromesso con tutto il suo immenso potere.
Ma che valore ha il bitcoin? Come definisco il valore di un asset digitale? Sulla base di cosa dovrebbe essere più sicuro rispetto all’euro o al dollaro?
Se vi state facendo queste domande, ho raggiunto lo scopo. Innescare il dubbio e la curiosità. Se avrete la voglia di approfondire ne rimarrete affascinati. Potreste anche trovarne criticità, come per tutte le opere dell’uomo, ma la storia insegna che l’efficienza vince sempre contro l’abitudine.
Quando hai sempre nuotato nella melma di una laguna inquinata, pensi tuttalpiù a come cambiare stile per tenere fuori la testa il più possibile.
...
E se, invece, potessi nuotare nelle acque cristalline dell’oceano?




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Progresso o Regresso?

17/06/2020

Il cervello è una "macchina" straordinaria.
Quante volte abbiamo sentito questa frase. Al punto che oramai non facciamo più caso al fatto che, per caratterizzarlo positivamente, lo associamo, appunto, ad una macchina.
Non si tratta solo di un aspetto semantico, ma generazionale. Agli albori dell'era informatica era il contrario. Ci riferivamo al "calcolatore" come "cervello elettronico".
È normale: si tende a descrivere il mondo con ciò che ci è più vicino intellettualmente. Ed ora siamo più vicini alle macchine.
Il cervello umano, comunque, ha alcune caratteristiche molto simili a quelle di una macchina. Prima di tutte la fatica, intesa come “lavoro”. Ogni pensiero è possibile solamente con dispendio energetico. Ma soprattutto: nessuna macchina può fare più lavoro dell’energia impiegata per farlo, anzi sempre un po’ meno.
Ogni processo di trasformazione dell’energia in lavoro produce una perdita in calore (entropia).
Anche il nostro cervello, proprio per questo, tende a fare meno fatica possibile per garantire la sopravvivenza dell’organismo che lo ospita: stimola la fame, il sonno, la paura. Mai non vi spingerà spontaneamente ad arrivare primo in una maratona, o a trattenervi dall’ordinare un tripudio di patatine fritte. Ogni “forzatura” agli stimoli che ci arrivano da esso sono “educazione”. Educazione al sacrificio per un bene più elevato, o percepito come tale. Così l’umanità ha accettato di buon grado anche le pene della convivenza (come per molte altre specie animali), e attraverso essa, con la tecnologia ed il progresso, ha potuto massimizzarne i vantaggi.
Oggi siamo così abituati ed assistiti dalla tecnologia, che tendiamo sempre meno allo sfruttamento del nostro cervello, al punto che non vede l’ora di mettersi in modalità “risparmio energetico”. Questo ci rende molto più inclini a lasciarci vivere, piuttosto che fare fatica e scegliere come vivere. Dopotutto quello che conta è vivere. Come specie non siamo naturalmente predisposti a pensare al futuro, ma solo alla soddisfazione dei bisogni impellenti. In natura se non sopravvivi ora, non ci sarà alcun dopo. Provate a far capire ad un adolescente dagli ormoni impazziti che deve studiare adesso, per assicurarsi un buon lavoro fra dieci anni… Insomma il cervello odia la fatica e la evita come la peste.
Ogni sviluppo tecnologico è basato proprio su questo: fare meno fatica possibile. In tutto. Anche nell’arte siamo passati dagli anni necessari per produrre il David, o la Gioconda, a qualche ora di un Pollok. Poiché il fine nell’arte è l’espressione emotiva, tanto minore è lo sforzo per produrre l’emozione, tanto maggiori saranno le emozioni prodotte.
L’efficienza governa il mondo.
Ma allora che cosa ci spinge a forzare questo meccanismo quando ci imponiamo fatiche improbe?
Domanda interessante.
Freud riprendendo il pensiero di Schopenhauer, afferma che in noi abitano due "io". L'io individuo e l'io della specie e sono in netta antitesi l'uno con l'altro.
Da un lato siamo funzionari di specie, e quindi dobbiamo contribuire alla sopravvivenza della stessa rischiando meno possibile, dall’altro abbiamo l’io individuale che, in apparente disaccordo con questo principio, rischia. Ma di brutto, brutto, brutto (come direbbe Aldo).
Alcuni, come ad esempio i piloti sportivi, rischiano anche la vita per dimostrare di essere i migliori; altri rischiano un po’ meno partecipando alle Olimpiadi di Matematica. Ma comunque il rischio c’è. Che si tratti di una semplice figuraccia, o della stessa vita, alcuni hanno questo irrefrenabile desiderio di competere. Questa caratteristica inserita nelle specie è interessante proprio per il suo essere comune, sí, ma non troppo.
Ci vuole equilibrio.
Equilibrio fra chi tende a premiare il proprio ego con la gratifica del riconoscimento sociale, e la specie che apparentemente se ne frega.
Se in una partita di calcio nessuno volesse fare il pubblico, ma volessero giocare tutti, ci sarebbero gli spalti vuoti, ma il campo un po’ troppo affollato…Viceversa, se fossero tutti nelle tribune non ci sarebbe nessuno da guardare.
È proprio la differente attitudine del singolo, che nel processo evolutivo porta vantaggio alla specie. Ma è necessario specificare quale sia il “vantaggio”.
Già, perché la specie è in grado di adattarsi all’ambiente (sociale) selezionando gli esemplari che meglio rispondono alle esigenze, proprio di quell’ambiente, e non ad altro.
Questo è un passaggio cruciale perché essere il migliore a giocare a calcio non ha alcun valore qualitativo in sé, ma identifica solamente gli esemplari migliori, che meglio rispondono a quel particolare ambiente: il campo da calcio.
In natura, per esempio, il mimetismo riesce a far assomigliare sempre più un insetto ad uno stecco, in una corsa lunga secoli che al traguardo avrà come premio la vita, ma alla fine il povero insetto risulterà tutt’altro che bello. Allo stesso modo ogni conseguenza sociale, figlia del nostro torpore intellettuale e della “modalità risparmio energetico”, sfuggendo quindi alla nostra volontà cosciente, potrebbe selezionare campioni di opportunismo e, sì, tenerci in vita come specie, ma imbruttirci parecchio, come il povero insetto stecco.
Io ritengo che proprio il salto evolutivo fatto da noi come specie umana, debba renderci invece “coscienti” rispetto a questo processo, e consentirci di poter dire la nostra.
Vorrei poter aspirare ad essere più carino di un animaletto che assomiglia ad un rametto secco.
In sostanza credo che il nostro dovere, anche se siamo parte della natura come "elementi" auto-selezionati, sia quello di contrastare quanto possibile la modalità risparmio energetico del nostro cervello, riabituandoci alla fatica di pensare.
Purtroppo, completamente opposta a questa direzione, anche la scuola sta abdicando dal suo naturale ruolo educativo, a favore di uno prettamente nozionistico. Non serve affatto che si sappia il perché delle cose, basta sapere il come.
Questa deriva naturale mi atterrisce in quanto, nonostante lo ritenga un processo entropico irreversibile (leggi qui…), dentro di me urla incatenata la voglia di essere qualcosa di più. Forse, dopotutto, e la stessa voglia che mi spinge a scrivere, nella speranza di non essere uguale agli altri, ma con la necessità, ancora più impellente, di non essere l’unico.
Se giocare a calcio con tutta la gente delle tribune risulterebbe impossibile, farlo da solo sarebbe del tutto inutile e insignificante.
C’è bisogno di entrambi.
Oppure sono solo un ingranaggio che gira male, o fuori sincro, in un meccanismo complesso che tende a minimizzare gli attriti. In un motore efficiente, ogni utilizzo di energia non convertita in movimento è considerata una perdita. In quest’ottica, nell’economia della specie, i sentimenti (come il calore per il motore termico) sono uno spreco.
Ma io vorrei che questo anacronistico scoppiettio inquinante esalasse la suo ultimo fumo.
Vorrei che l’affermarsi della tecnologia elettrica per le auto, coincidesse anche con un nuovo modo di usare energia pulita, per muovere le menti, ripulite pure loro.
Vorrei più di tutto avere la certezza che non perderemo mai la voglia di rischiare di perdere, perché è l’unico modo per provare a vincere.
Già, bisogna rischiare…
Ma di brutto, brutto, brutto.


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Transumanesimo o illuminismo wifi?

08/06/2020

Il futuro, che “fantastico trip”.
Ne siamo tutti da sempre affascinati e poterlo immaginare lascia aperte strabilianti ipotesi e scenari.
In generale rispetto al futuro il mondo si divide in due macro-ideologie: Umanisti e trans-umanisti.
I primi sono fortemente legati, direi incatenati alla visione dell’uomo come prodotto biologico naturale migliore possibile. In sostanza hanno l’ego talmente grande da renderli incapaci di vedere oltre.
Poi ci sono i visionari transumanisti il cui ego non è inferiore in quanto a dimensioni, ma loro ci si siedono comodamente sopra.
Ciò che crea qualche perplessità è che il fine ultimo, il disegno, l’Eden per entrambi i gruppi coincida sempre con la vita eterna (o quasi). La differenza è che i primi si affidano a Dio (con qualsiasi altro nome vogliamo chiamarlo) mentre gli altri alla tecnologia.
Le due visioni pur essendo opposte nella collocazione dell’uomo rispetto alla storia, tendono comunque a preservarne l’essenza, o l’anima. In un caso la si accetta come entità pre-gressa immortale ed incondizionata, e nell’altro la si costruisce come pro-gresso tecnologico. Per questa ragione, poiché nell’umanesimo tradizionale con tutti i suoi risvolti religiosi e filosofici è pericoloso addentrarsi senza essere facilmente e giustamente tacciato di superficialità (se non addirittura di blasfemia), vorrei sorvolare l’altro orizzonte, parlandovi di un uomo che ha azzeccato fino ad oggi parecchie previsioni, e che scommette su un futuro transumanista. Quindi potrete insultarmi lo stesso, ma dopo.
Per iniziare definiamo transumanesimo come un movimento culturale che sostiene l'uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive e migliorare quegli aspetti della condizione umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l'invecchiamento, in vista anche di una possibile trasformazione post umana. (fonte: Wikipedia)
Prima di addentrarmi oltre, vorrei tranquillizzare chiunque abbia avuto distorte informazioni sul qualsiasi relazione fra questo movimento con gruppi nazisti o di supremazia razziale. Come sempre, chi non ha vesti di spessore culturale adeguate, indossa e fa proprie quelle altrui nel tentativo di ripararsi dal gelo generato dalla propria ignoranza.
Arriviamo ora al personaggio misterioso e alle sue gesta, prima ancora che alle sue previsioni.
Chi ha vissuto come me la passione del musicista live negli anni 90, è impossibile che non abbia memoria delle tastiere Kurzweil (ancora nel mercato). Tutti all’epoca ci siamo chiesti come si poteva dare un nome così difficile ad una tastiera.
Oggi scopro che tutto nasce da un’amicizia del sig. Raymond Kurzweil con Stevie Wonder. Molti anni prima, precisamente il 13 gennaio del 1976, Stevie ascoltando la radio udì un discorso letto artificialmente da una macchina con riconoscimento ottico dei caratteri (OCR). Si trattava dell’ultimo sviluppo tecnologico di cui Ray Kurzweil è stato un pioniere. Stevie acquistò l’apparecchio per ovvie ragioni e i due diventarono amici. Questa amicizia negli anni seguenti spinse Stevie a parlare con Ray delle enormi possibilità dell’elettronica negli strumenti musicali. Nel 1982 fondò una nuova società e due anni più tardi produsse il primo pianoforte sinth così realistico da sembrare un pianoforte vero ed entrare nella storia. Nel corso degli anni con l’avanzare della tecnologia continuò ad innovare rendendo tascabile la sua macchina per leggere, e successivamente ne sviluppò un’altra per dettare, usata dai medici per redigere i referti automaticamente.
Comincia a delinearsi una figura alquanto ecclettica in grado di intuire le potenzialità offerte dalla tecnologia. In seguito Ray si dedicò sempre di più al “potenziamento” delle facoltà umane per sopperire a patologie o menomazioni invalidanti, fondando anche la Kurzweil Educational Systems. (fornendo soluzioni di alfabetizzazione, per coloro che hanno differenze di apprendimento o disabilità)
Questo approccio pragmatico da un lato, e molto proiettato al futuro dall’altro, lo ha portato a diventare uno dei più rispettati “futurologi” viventi. La sua teoria (legge dei ritorni acceleranti) riprende la famosissima legge di Moore secondo cui l’aumento della capacità di calcolo dei microprocessori segue una progressione geometrica (non lineare) raddoppiando ogni 18 mesi. In parole povere si comporta come il Covid 19 con poco distanziamento sociale. L’intuizione di Raymond fu quella di proiettare in questa progressione l’incremento dell’intelligenza artificiale (AI) e non solamente alla capacità di calcolo. Seguendo questa previsione, secondo Raymond, nel 2045 arriveremo alla Singolarità Tecnologica in cui l’intelligenza artificiale supererà quella umana. Naturalmente detta così sembra un’ipotesi alquanto bizzarra, ed il personaggio è senza dubbio bizzarro di suo, arrivando ad affermare che riporterà in vita il padre col DNA. Tuttavia, nonostante qualche scivolone da fanta-horror, è appurato che l’86% delle previsioni fatte da Ray intorno al 1986 si sono rivelate esatte. Altre, non sono sbagliate, per ora(!), è solo troppo presto per verificarle, compresa la rinascita del padre Fredric (sul serio?).
Alcuni esempi
• Nel 1998 un computer avrebbe battuto l’uomo a scacchi, ciò avvenne addirittura nel maggio del 1997 quando Deep Blue (IBM) batté il campione del mondo Garry Kasparov in diretta TV.
• Entro il 2000 molti documenti sarebbero stati solo su PC o Internet.
• Predisse che Internet sarebbe esplosa non solo in termini di utilizzatori, ma soprattutto di potenzialità per contenuti, commercio, istruzione, finanza.
A leggerlo adesso ci fa quasi sorridere, bella scoperta, lo sanno tutti. Peccato che quando lui scrisse queste previsioni i più fortunati di noi sognavano il Commodor 64, ed Internet, grazie al Dipartimento della Difesa USA, contava solo 4 nodi (quattro!!!) rispettivamente uno in Norvegia, uno in UK, uno in Germania ed infine uno in Italia (all’università di Pisa). Per una volta non siamo stati gli ultimi, ma quel vantaggio si è fermato lì.
Quello che su cui vorrei porre l’attenzione non è la veridicità o meno delle fantastiche previsioni del nostro eclettico amico, quanto piuttosto sulla nostra capacità di “digerirle” in anticipo. La nostra coscienza da anni è decisamente più lenta del nostro tempo.
Ognuno di noi penso ritenga favoloso poter ridare mobilità a chi ha subito amputazioni, magari con la possibilità di ritornare a percepire il tatto con un arto meccanico. O ridare la vista a chi l’ha persa o mai avuta. E fin qui, tutto bene ed in buona parte auspicabile. Ma che succede se al nuovo braccio o gamba potremo dare forza sovrumana realizzando uno scenario che il tubo catodico (evoluto nel frattempo pure lui) ci ha già proposto più volte, a cominciare dal mitico Lee Majors col suo uomo da sei milioni di dollari? Perché mai dovremmo ritenere questa possibilità NON ETICA. Come ho affermato più volte la morale è figlia dei tempi che la generano, e il nostro è un tempo governato dalla tecnologia. Esattamente come ora (dopo qualche scaramuccia) è ritenuto plausibile ricorrere alla fecondazione in vitro per procreare, aumentando, anzi alterando completamente le stesse fondamenta della Natura, allo stesso modo non sarà possibile in futuro limitare queste “derive” tecnologiche. È bene? È male? Rispondere ora alla domanda ha poco senso. Non ne abbiamo coscienza. Sarebbe come chiedersi se ci piace la minestra senza volerla assaggiare. Vedere ora degli scarafaggi che ci galleggiano sopra ce la farebbe apparire disgustosa e inavvicinabile, appunto, ora. Ma domani? Sembra oramai assodato che gli insetti saranno il cibo del futuro… Io continuo a preferire l’ipotesi “erbivoriana”.
E comunque il nostro amico Ray non ci prova nemmeno a farne un tema etico, ma solo ed esclusivamente evolutivo (scientifico). Afferma in modo del tutto coerente che nel momento in cui un’intelligenza artificiale potrà essere più performante di quella umana, all’uomo non resterà che servirsene per aumentare la propria, ed impedire di essere tagliato fuori dall’evoluzione della specie, che a quel punto non sarà più “solo” umana ma Transumana. La logica non fa una piega, direi che è in linea con l’approccio illuministico di Francis Bacon (Bacone) che identifica nell’approccio scientifico l’unico vero metodo per arrivare alla conoscenza. Se da un lato quindi la direzione è senza dubbio quella della “singolarità tecnologica” che coinciderebbe con l’inizio di una nuova era, dall’altro è doveroso dire che esistono molte critiche sulla sua reale attuabilità. La più rilevante insiste nel sostenere che la direzione, appunto solo la direzione, punta a questo scenario, ma non lo raggiungerà mai, riducendosi quindi ad un vano tentativo “asintotico”.
In conclusione, dove arriveremo è impossibile saperlo ora. Tuttavia in accordo con qualche personaggio del calibro di Elon Musk, e del compianto Stephen Hawking, credo sia opportuno porsi il problema per non arrivare totalmente impreparati e doverci tappare naso ed ingoiare a forza una sbobba indecente. Io infatti, fedele al mio spirito vagabondo, preferisco violentare le mie papille gustative da ora, ed iniziare ad assaggiare e magari insaporire una nuova minestra, piuttosto che lasciare questo mondo con lo stomaco vuoto ma con una mentina in bocca. Dopotutto quando sei morto, l’alito non conta un granché.

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Le reliquie della Democrazia

31/05/2020

In riferimento al mio precedente intervento sull’entropia associata alla società, in cui ho ipotizzato che proprio la democrazia sia una direzione naturale verso cui tendono tutti i conglomerati umani, vorrei ora dichiararne anche l’ineluttabile fallimento.
Certo che iniziare così la settimana. lo so… Forse dovrei scrivere sull’utilità (o meno) della mascherina, ma è così facile (ed inevitabile) trovare centinaia di colti argomentatori che si occupano delle consuetudini comportamentali del virus e dei suoi ospiti, che preferisco allietarmi su temi più leggeri, come “il fallimento della democrazia”.
   Se etimologicamente il significato di democrazia è governo del popolo, è subito interessante notare che la particella “del” può essere sia del complemento di specificazione, che del complemento oggetto. Si può intendere cioè sia come il popolo che governa, che il popolo da governare. E già qui ci sarebbe da riflettere.
In ogni caso, partendo dall’accezione comune che la identifica come potere del popolo, sarò felice di esporre alcune delle argomentazioni per le quali la sua attuazione è puramente illusoria.
Per iniziare vorrei raccontare la storiella di Hotelling (Paradosso dei 2 gelatai). Immaginiamo 2 gelatai, ciascuno col proprio carretto, che debbano dividersi i clienti in un tratto di litorale di un kilometro della riviera Romagnola. La soluzione più intelligente sarebbe sicuramente quella di mettersi rispetto al centro l'uno a 250 metri a sinistra e l'altro a destra distanziati tra loro di 500 metri. In questo modo la distanza massima che i bagnanti dovrebbero fare per trovare sollievo dall' arsura sarebbe appunto al massimo di 250 metri. Chi si trova alle estremità del litorale dovrà percorrere la stessa strada di chi si trova vicino al centro. Questo però solo nel caso in cui i gelatai avessero a cuore i clienti. Infatti, poiché i poveri bagnanti alle estremità non avranno come scelta che procedere verso il centro per raggiungere il desiderato ghiacciolo, i due intraprendenti gelatai cominceranno a cercare di accaparrarsi sempre più i clienti della sponda opposta, avvicinandosi così tanto tra loro da arrivare ad affiancarsi, costringendo i poveracci alle estremità a percorrere il doppio della strada. Questo esempio è una semplificazione banale del fatto che per riuscire a vendere più gelati possibili (o ottenere voti) non è necessario fare gli interessi di chi li compra (o degli elettori).
Naturalmente questo non è il vero motivo per cui ritengo fallimentare la democrazia, ve ne sono altri molto più radicali e preoccupanti.
Primo fra tutti l'età degli elettori. Sono certo che sarò lapidato solo metaforicamente (Spero) ma la politica deve fare i conti coi gusti degli ultra 60enni perché rappresentano una base elettorale senza la quale non si vendono gelati, a nessuno.
Con ciò non intendo dire che i gusti dei più anziani non contino, anzi è necessario avere il massimo rispetto, ma contano meno in quanto a propensione a provare gusti nuovi. Il professor Galimberti, oramai non più giovanissimo anche lui, spesso afferma che i “i vecchi non sono saggi, ma hanno perso semplicemente l’aggressività che la natura ci da per la protezione della prole”, in realtà più si invecchia e più si diventa abitudinari, e tutto ciò che “turba” le routine è fonte di stress e tenuto a debita distanza. E’ palese quindi che se demandiamo alle persone “non più giovani” le scelte politiche per il futuro, direi che non arriveremo molto lontano.
Il motto uno vale uno è considerato universalmente corretto, ma io credo sia la svista più clamorosa della democrazia, tanto che persino Einstein ne dichiarerebbe l'inconfutabile relativismo.
Il voto di un giovane ventenne non vale quanto quello di un ottantenne. Non in termini qualitativi, non per me.
Tuttavia, in perfetto accordo con la relatività devo dire che le eccezioni non mancano.
Ho la fortuna di vivere indirettamente le gesta di un imprenditore (oramai anziano) a capo di un'azienda divenuta fra le più ricche del mondo e il suo approccio è sempre stato: pragmatismo, lungimiranza e voglia di provare gusti nuovi.
Quando una linea produttiva diventava inefficiente si accollava senza timore il costo della nuova, perché solo con l'incremento di produttività avrebbe mantenuto la leadership nel mercato e potuto sostenere la passività di quanto dismesso e letteralmente abbandonato in vecchi capannoni. Questa politica è possibile perché in quella realtà non vige democrazia ma visione d'insieme.
Se si fosse chiesto di votare a tutti gli operai per il mantenimento delle vecchie attrezzature conosciute e padroneggiate per anni, o per riconfigurare invece tutte le linee con nuove tecnologie, probabilmente dopo qualche tempo sarebbe stata aperta la trattativa coi sindacati per la cassa integrazione di centinaia di operai espertissimi nell'uso di macchinari vecchi.
Con questo non intendo dire che sia auspicabile una dittatura, ma di sicuro con la democrazia ignorante si faranno solo scelte ignoranti.
Oramai la politica non ha più alcuna base ideologica, è diventata solamente un affare di come vendere più gelati possibile per potersi concedere un'altra stagione e un'altra ancora, senza rischiare troppo con gusti pericolosamente nuovi.
Arrivo ora ad un altro motivo per cui trovo la democrazia fallimentare.
Accettando per buono il principio secondo cui io ho diritto di esprimere le mie opinioni e prendere posizioni, va da sé che dovrei avere tutte le informazioni e le conoscenze necessarie affinché si tratti di un’opinione “fondata”. Se chiedessi ad un teologo di firmare i calcoli statici per la costruzione di un palazzo di 40 piani, probabilmente otterrei degli ottimi consigli su come affidarmi alla misericordia divina a seguito del mio contributo alla perdita di vite innocenti. Ma non avrei fatto un gran buon servizio alla comunità.
Allo stesso modo, è ipocrita ed ingiusto pensare che un comune cittadino abbia una precisa idea di cosa comporti una scelta come quella nucleare (per fare un esempio) senza avere alcuna nozione specifica su tutto ciò che essa comporta. E quindi la decisione non si prende a ragion veduta, ma per fascinazione o per identità politica o religiosa, o perché quello mi piace come parla. La democrazia diventa un tragico esercizio decisionale in cui non conta scegliere bene (secondo coscienza), ma avere l'impressione di aver scelto.
Giunti a questo punto, piuttosto di una finta democrazia fallimentare ma umanizzata, preferirei mille volte una lungimirante, anche se spietata, oligarchia di bit senza sentimenti o pulsioni, e per questo incorruttibile. E se qualcuno ha il coraggio di dirmi che un computer non ha umanità, vorrei che mi rispondesse con quale umanità il genere umano ha dato inizio a guerre mondiali, ad assassinii di massa, e devastazione del pianeta.
Senza dimenticare l’esito del voto con cui il popolo ha dato il meglio di sé, scegliendo Barabba.

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La società ”entropica”

25/05/2020

L' entropia è una entità complicata, per semplificazione, viene spesso associata al concetto di disordine.
Serve fare però un po' di chiarezza perché spesso si confonde l'ordine col disordine, anche se le mamme hanno delle granitiche certezze a riguardo.
Se decidete di mangiare sano, il cavolo bollito sembra essere una buona idea… all’inizio.
Poi l'odore si propagherà in ogni stanza di casa, con l'inevitabile effetto di colonizzare ogni angolo, e con un rigore che “sembra” ordinato. La fisica ci dice che non è così. In realtà tutto accade per il motivo contrario. L’odore passa da una situazione di ordine, in cui è facile stabilire la posizione del cavolo, ad una situazione di disordine in cui è di fatto impossibile stabilire dove sia l'origine.
Per fare un altro esempio, immaginiamo di dimenticare un cubetto di ghiaccio sul piano della cucina; si scioglierà! Scatenando, per altro, le ire del Martini e dell’oliva sua amica. Tuttavia, anche con il religioso aiuto, le molecole liquide non si riorganizzeranno e l’acqua non tornerà mai spontaneamente ad essere di nuovo cubo di ghiaccio, e neanche vino.
In un sistema, l'entropia (disordine) tende sempre ad aumentare cedendo energia (persa per sempre) sotto forma di calore. I fisici saranno indulgenti per l'eccessiva semplificazione.
Io credo che tale principio si possa applicare anche alla società, nel tentativo di indagarne i processi e forse ipotizzarne il futuro.
Una dittatura, per esempio, è come un cubetto di ghiaccio che, se non è costantemente accarezzato dal freddo, si scioglierà.
Ma per mantenere il freddo, il sistema pretende massicce botte di energia, in alternativa, gli atomi costretti alla griglia ordinata, preferiranno una forma sociale più libera ed allegramente democratica.
Anche la democrazia, però, per funzionare necessita di regole o leggi (Forze). Ancora una volta, quindi si cerca di frenare l’entropia. In questo senso, anche la discriminazione razziale, o di genere, sono preconcetti che stanno svanendo. Un diritto di voto che era prima “ordinato” e appannaggio solo di alcuni precisi gruppi, sta diventando universale, in altre parole “disordinato”.
Anche le nostre culture, i dialetti, la cucina… tutto si sta mischiando e contaminando in un processo che porterà inevitabilmente ad un risultato “globale”. Non sapremmo più dov’è il cavolo, perché i suoi influssi sono ovunque.
Anche in natura la bio-diversitá è uno strumento eccezionale per amplificare al massimo ogni possibilità di adattamento, allo scopo di ottimizzare una specie. Si fanno tante provette leggermente diverse per vedere qual è quella che funziona. Questa ridondanza non è una ricchezza in sé, ma nel risultato che produce: il migliore possibile, e tendenzialmente quindi, unico.
Se pensiamo a come sarà l'uomo fra 1000 o 2000 anni, è possibile che vi saranno tutte le differenze razziali di oggi? Ancora una volta è l'entropia che, dal sistema ordinato di popoli, divisi per posizione geografica, sparpaglia e rende omogeneo il tutto, come l'odore dei di cavoli.
(Oramai mi sembra di sentirlo davvero...)
Ed in questo disorganizzato mischiarsi di geni e culture e cavoli, credete sarà possibile continuare a governarsi con regole diverse o con monete diverse o con lingue diverse?
"L'entropia c'è", come una scritta sopra ai cartelli stradali.
Non è certo qualcosa che capiterà domani, neanche la settimana prossima, dormite tranquilli. L'entropia non fa rivoluzioni. Il suo motto è fare tutto, ma con la minor fatica possibile.
Perché tutta la fatica la stiamo facendo noi, chiudendo tutte le porte per cercare di contenere il “profumo”.

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Quando si diventa vecchi?

20/05/2020

Ora.
L’Italia è vecchia. Vecchia dentro, e i vecchi, si sa, non cambiano. 
Ma quando rinascerà, se rinascerà, il conto sarà molto più salato di quanto non sarebbe pagandolo ora. Ma perché pagarlo noi? Meglio lo paghino i prossimi. Ecco riassunto in due righe tutta la miseria del nostro non pensare. 
Così, mentre a Dubai entro un anno verrà eliminata COMPLETAMENTE la carta nella pubblica amministrazione, compresa quella necessaria per acquistare un immobile, richiedere la patente, o ricevere una multa, qui siamo ancora alle mazzette degli appalti in busta chiusa.
Siamo vecchi. 
Sembriamo attaccati alle vecchie abitudini manco fossero orgogli nazionali come la pizza o il parmigiano. I tanto criticati arabi, che sono nati con la fortuna del petrolio, non hanno aspettato di finirlo per essere pronti al futuro. In mezzo al deserto hanno costruito una città sostenibile (Smart city) autosufficiente con tecnologia solare termica (non a petrolio), e ricordo che la benzina a Dubai costa meno dell’acqua. Con tutte le risorse che ha l’Italia invece, non siamo riusciti a prevedere nulla. Si vive di ora in ora. La stessa differenza che c’è fra un giovane pieno di aspettative e un vecchio seduto sull’uscio, a guardare la vita che passa. Siamo vecchi dentro.
Abbiamo confuso l’attaccamento alla tradizione con la paura di cambiare. Quando leggete post nostalgici di quanto erano belli i nostri tempi, siamo vecchi e basta.
Vedo gente che si scandalizza per Amazon che indovina, con un algoritmo di intelligenza artificiale, cosa devi acquistare, ma nessuno di loro si chiede come sia possibile non usare tale tecnologia per le diagnosi preventiva su una banca dati unificata, con tutte le cartelle cliniche. Gente preoccupata della privacy che però usa Google Maps per andare in bagno.
Siamo vecchi che giudicano la tecnologia, come si trattasse dei pantaloni col cavallo basso dei giovani, non la capiamo. È troppo veloce.
Dobbiamo mettercelo in testa, quando cambia il terreno, cambiano anche le piante e il modo in cui crescono. L’ errore più comune è pensare di poter cambiare il terreno. Noi siamo solo le piante. Tutto ciò che possiamo fare, è trovare il modo migliore di adattarci ad esso. Il terreno è la tecnica che non evolve per l’uomo ma attraverso l’uomo. Chiunque pensi di poterne limitare la sua inarrestabile progressione è un ingenuo. Se si può fare, prima o poi si farà, ciò che si può governare è il “perché” .
Siamo tessere di un domino che può diramarsi in un’infinità di disegni, ma sicuramente non si arresterà mai. Possiamo guardare avanti, e decidere dove posizionare le prossime tessere, o limitarci a guardare indietro quelle oramai cadute. Fa tutta la differenza del mondo. La differenza di chi studia la storia, e di chi la fa. 
Ma che importa?
I nostri sì, che erano bei tempi.

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Paleonto-Sofia

11/05/2020

(seconda parte)
Che cos'è l'evoluzione per l'umanità?
Molte specie animali modificano l’ambiente per adattarlo alle proprie esigenze, l’uomo lo fa in modo “importante”.
La cosa più evidente è che questa capacità è proporzionale alla conoscenza.
Più conosciamo il mondo, e meno ci interessa preservarlo. Siamo dei castori a cui è sfuggita di mano l’inventiva!
Che valore dare quindi all’evoluzione dell’umanità, che sembra essere inversamente proporzionale alla preservazione del proprio habitat e quindi della propria stessa conservazione? Può l’evoluzione di una specie andare “contro” sé stessa?
La spiegazione, secondo il Prof. Galimberti, è molto semplice: la capacità di modificare l’ambiente che l’uomo ha acquisito con la tecnica, è di gran lunga superiore alla sua capacità di prevederne gli effetti.
Ed anche qualora gli effetti fossero chiari, non ne ha coscienza, perché non fa in tempo a “metabolizzarli” in una sola generazione.
Solito esempio: tutti sanno che il fumo uccide, ma l’industria del tabacco fattura 764 miliardi di dollari l’anno. Non c’è coscienza della sua pericolosità perché quando uno muore per cancro ai polmoni, non può tornare indietro, e ripensarci. “Ma tanto a me non capita…“ Ecco come si comporta l’uomo nei confronti del proprio habitat: “tanto a me non capita!”.
Alla luce di questo, come possiamo definirlo “intelligente”? Se per assunto l’intelligenza è proprio la capacità di immaginare scenari futuri (come definito dalla Treccani), com’è possibile che non sia in grado di governare anche le proprie decisioni in modo sensato? Dove sta sbagliando l’evoluzione?
L’evoluzione non sbaglia, perché non è né buona né cattiva, ma solo funzionale.
Quelle strane zampette che chiamiamo intelligenza stanno rispondendo alla funzione che la natura ritiene utile al momento. E non è detto che la natura (in senso “universale” e non antropologico) ci ritenga utili per sempre.
Concludendo, io credo che l’intelligenza non sia dell’uomo, ma che l’uomo sia il mezzo attraverso il quale essa può esplicitarsi. Come la conoscenza: le cose non cominciano ad esistere quando vengono “scoperte”, ma sono sempre state lì. Tuttavia l’egocentrismo dell’uomo parla sempre di “conquiste”. (La categoria del dominio è un aspetto culturale, che mi piacerà approfondire in un altro momento).
Io ritengo più coerente affermare che ogni scoperta dell’uomo è una “concessione” dell’universo, nella naturale ed ineluttabile direzione di quest'ultimo verso l’ ENTROPIA. E questa non è una teoria, ma una sintesi scientifica.

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Paleonto-Sofia

07/05/2020

(prima parte)
Anche per la società, come è successo in natura, siamo passati da una visione esclusivamente evolutiva, che prevede la nascita di nuove soluzioni in risposta a precise esigenze ambientali (strumentale), ad una visione evolutiva, combinata però con la cooptazione funzionale (expaptation. Per chi volesse approfondire consiglio una breve ma fondamentale conferenza del prof. Telmo Pievani in questo link: https://youtu.be/7dgzWGSRVy8). Cioè, se assimiliamo la società ad un animale, essa ha in sé una straordinaria ridondanza funzionale, che si esplicita in diverse forme, in conseguenza all' ambiente in cui vive.
Così lo stesso "genoma" umano può dar luogo a tipologie di aggregazione: democrazie, dittature, monarchie ecc. Ciò che è affascinante notare tuttavia, è il capovolgimento di causa effetto.
Anche per la tecnologia accade la stessa cosa, la quale non "cerca" con uno scopo, ma conferisce uno scopo a ciò che ha scoperto. Come in natura.
Io credo che anche la società, intesa come sistema di relazioni, stia seguendo il medesimo destino. Cioè la nostra sopravvivenza è garantita proprio dalla maggior percentuale di variabili ed inutilità. Come gli arti superiori dei dinosauri, che li rendevano piuttosto ridicoli all'epoca, ma che hanno consentito la nascita e l'evoluzione di una nuova specie: gli uccelli. (vedi la conferenza sopra citata)
La funzionalità è potenziale.
E arriviamo al tema dell'intelligenza.
Cos’è l’intelligenza? Probabilmente è il Complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, ed elaborare modelli astratti della realtà…, come la definisce la Treccani.
Ma l’enciclopedia è redatta da uomini, ad uso esclusivo degli stessi. Proviamo ad uscire da questa “caverna platonica” per cercare di guardarla da fuori.
Essa sembra essere per l'umanità come l'arto ridicolo del dinosauro, che ci fa correre sgraziati in questo momento, ma che potrebbe farci volare, se finalmente riuscissimo a dargli la funzione che merita, o sarebbe meglio dire che serve.
Se sono le miserie dell'animo umano, che limitano le potenzialità dell'intelligenza, basterà limitarle e spostare sull'intelligenza sempre più funzionalità. Forse sarà l'evoluzione a farlo. Proprio come succede in natura. La critica a questo ragionamento è che l'intelligenza È nell'uomo, e non può essere slegata da esso.
Ne siamo così convinti?
Abbiamo talmente bisogno di sentirci indispensabili da dimenticare che l'universo è nato e vissuto senza di noi per 13 miliardi di anni senza alcun bisogno della "nostra" intelligenza o creatività.
 Sarebbe come dire che la relatività è di Einstein. Sbagliato! Einstein l'ha solo scoperta. L'intelligenza è una funzionalità e come tale è potenziale e non "appartiene" alla sfera umana, ma l'uomo è il mezzo attraverso cui essa esplicita sé stessa.
In questa visione, anche il termine "intelligenza artificiale" è ridicolo. L'intelligenza non può essere considerata artificiale solo perché indipendente dall'uomo.
Quindi se la società odierna fosse un animale, come evolverebbe?
Sarebbe destinata all'estinzione dando il via ad una nuova specie, come accaduto per i dinosauri, o riuscirebbe a ricodificare sé stessa?
Proverò ad immaginarlo nella seconda parte. 

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La Privacy

25/04/2020

Schizofrenia pura! Ma come? Non facciamo che lamentarci del fatto che l’economia deve crescere, che bisogna aumentare la produttività.
L’utilizzo dei dati serve solo a questo! A nessuno frega niente dei tuoi segreti. Amazon è diventato quello che è, perché è più comodo che andare a zonzo per 10 negozi a cercare quello che ti serve, e in cambio di questa comodità, loro sanno esattamente quello che ti serve! Ti senti tranquillo perché sei stato tu a dirglielo? Complimenti! Come dire: “che nessuno osi tagliarmi le palle, perché lo devo fare da solo!”
La tecnologia ha come scopo l’aumento dell’efficienza di qualsiasi sistema. Se non sei d’accordo, ed è legittimo al 100%, devi concentrarti sul motivo, non sul metodo.
Voler proteggere la propria privacy è una contraddizione in termini. Se è privata non lo sa nessuno! Se la condividi col tuo smartphone, perché è uno strumento che ritieni indispensabile, hai già tradito il principio stesso di “privato”. Fa parte del processo tecnologico di cui siamo vittime e carnefici. Se non ti piace, puoi pure continuare ad usare il cavallo! Non potrai andarci in autostrada, ma pensa che figo parcheggiarlo sul piazzale dell’azienda!
Se desideri un mondo dove sia tutelata la tua privacy, devi ripensarne uno dove i profitti, che derivano da essa, non siano l’unico obiettivo, a cui anche la tua stessa vita si inchina, inconsapevolmente (?).

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La Libertà

22/04/2020

La percezione della libertà rende liberi. Ma essendo la percezione stessa vincolata al nostro modo di percepire , la libertà esiste solo nella misura in cui noi la riteniamo tale. Essere libero non ha nulla a che fare con avere la libertà. Puoi avere la libertà di guardare senza essere libero di vedere. Inoltre si può aver paura solo di ciò che si conosce. mentre si prova angoscia per ciò che non si conosce . Questo è il motivo per cui, è più facile restare ancorati alla paura di ciò che si conosce (per quanto poco sia), piuttosto che vivere nell' angoscia, data dalla consapevolezza della propria ignoranza.
Vorrei un mondo più attento alla libertà di essere piuttosto che bramoso per la libertà di fare.